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Palafreniere, ecco il mio mestiere !

Probabilmente è radicato nella mia anima abbastanza in profondità questo sentimento. Perché ormai da decenni, anche nell’ultimo incontro con una persona della quale ho massima considerazione, è venuto fuori con molta spontaneità.

Alla domanda: “Ma tu, di cosa ti occupi esattamente?” Ho risposto proponendo l’immagine del palafreniere: “Aiuto le persone a salire sul loro cavallo affinché trovino la strada più agevole per raggiungere i loro obiettivi”.

E’ un mio credo l’attività che svolgo, dove arte, religione e scienza si interpenetrano e fecondano il mio essere e il lavoro che faccio. Quello di stare al fianco delle persone; affinché esse stesse, attraverso la ri-scoperta e il ri-conoscimento delle loro capacità e dei loro talenti, riescano ad emergere dalla palude del disagio.

 

 

Essere al servizio degli altri, implica prendersi cura di noi stessi

Dale Larson, l’autore di “Aiutare chi soffre” (The helpers journey: Working with people facing grief, loss, and life-threatening illness. Research Press, Champaign, Illinois, 1993) che La Meridiana ha pubblicato in traduzione italiana nel 2007, ci ha aiutato negli anni a comprendere con molto realismo ed umanità perché così tanti, fra chi svolge una professione d’aiuto, cadono nel burnout. Quella forma invasiva di esaurimento emotivo, fisico e psicologico, derivante da un coinvolgimento intenso e a lungo termine con persone che richiedono particolare impegno ed attenzione. Uno stato in cui una persona arriva a dire “non ne posso più”.

Larson, con questo suo libro ci offre un manuale che cerca di divulgare aspetti psicologici e fornire al lettore strumenti che accrescono concretamente la sua efficacia. Egli – a ragione – ritiene che, per diventare caregiver più efficaci e capaci di affrontare lo stress, sia necessaria la conoscenza e l’acquisizione di specifiche abilità psicologiche che non si apprendono automaticamente lungo il percorso di aiuto, come il senso comune vorrebbe affermare nel dire “si impara facendo”. Il libro propone molti esercizi ed attività pratiche che il lettore potrà applicare e personalizzare valutando criticamente le idee e le tecniche presentate.

La prima parte del libro si focalizza sulle esperienze interiori di chi aiuta, sul coinvolgimento emotivo e la realtà intima dell’helper. La seconda parte si occupa della dimensione interpersonale e approfondisce la relazione d’aiuto e le abilità comunicative che sono i mezzi attraverso cui si esprime e concretizza l’aiuto all’altro. La terza parte, infine, analizza il lavoro di gruppi, équipe e sistemi di aiuto operanti nella realtà statunitense.

Il libro è frutto della lunga e autorevolissima esperienza dell’autore, viene presentato come guida per chi offre relazioni d’aiuto a persone colpite da lutti e malattie terminali; in realtà contiene numerosi spunti di riflessione validi per tutti coloro che desiderano affrontare il problema del burnout a partire da un orientamento “centrato sul cliente”, così come ci è stato trasmesso da Carl Rogers, il quale per primo ci ha fatto comprendere la importanza del counseling condotto in modo non direttivo. Larson in questa sua opera offre spunti di osservazione e suggerimenti pratici che ci aiutano a considerare in modo nuovo un problema che coinvolge molte attività professionali e, di conseguenza, molte organizzazioni di lavoro.

Attraverso questo libro ogni lettore, a partire dalla propria esperienza del proprio ruolo sociale e dei compiti ad esso connessi, potrà rendersi conto che ogni attività di “servizio” o di aiuto, qualsiasi forma di consulenza, utilizza un insieme coerente di atteggiamenti che sono profondamente radicati nell’organizzazione individuale dell’operatore. Pertanto se chi presta aiuto o consulenza cerca di usare solo un “metodo” di intervento, egli è votato all’insuccesso (burn out) se tale metodo non è genuinamente in linea con i suoi stessi atteggiamenti: i sentimenti, le azioni, i pensieri.

Riusciremo a comprendere meglio questo assunto, rendendoci conto che il primo elemento di stress, quello che può creare molti problemi, è situato proprio nel nostro modo di porci di fronte agli eventi. Riguarda il modo in cui noi vediamo le cose, come le pensiamo. Noi stessi siamo fonte delle nostre tensioni, del nostro “scoppiare”. Molto spesso abbiamo pensieri irrazionali che ci possono danneggiare. I fatti o le situazioni scatenanti non hanno un valore emotivo in sé ma è il nostro modo di valutarli che provoca una diversa reazione psicologica.

A volte ci è capitato – e capita tutt’ora – di trovarci di fronte a una situazione difficile in cui non sappiamo cosa fare, non sappiamo come affrontarla o non abbiamo gli strumenti necessari per intervenire in modo efficace su di essa, non possiamo agire in modo adeguato.

Si tratta in genere di un evento, un compito o una prova che in quel momento fa emergere il limite delle nostre possibilità, un sentimento che viene da noi vissuto con un certo grado di disagio.

A questo punto, il segnale della nostra inadeguatezza si manifesta attraverso l’ansia che a sua volta sottintende l’indice della nostra fatica psicofisica o del nostro stress.

Tutto questo capita quotidianamente: in famiglia, a scuola, al lavoro, ecc..

Avviene anche nei casi in cui ognuno di noi agisce professionalmente con l’obiettivo di aiutare un’altra persona.

Ma nel momento in cui non riusciamo a raggiungere quella meta, a realizzare cioè quel compito richiesto al nostro ruolo, questo può – in moltissimi esempi – tramutarsi in una minaccia nei nostri confronti. Diventa un attacco alla nostra autostima, in quanto ci sentiamo a disagio e immaginiamo che qualcuno – oltre il nostro senso di colpa – potrebbe anche avere da ridire sul nostro operato.

E’ pur vero però che quando riusciamo a renderci conto di vivere una tale situazione possiamo dire: “io posso lottare, posso fronteggiare la minaccia alla mia autostima”.

Però, ahimé, quasi mai ce ne accorgiamo in tempo …

C’è un aneddoto simpatico raccontato da Larson che definisce molto argutamente la situazione vissuta, dagli operatori delle professioni di aiuto. Un uomo si trova a casa sua nel bel mezzo di un’alluvione. L’acqua ha invaso il piano terra e lui è salito al primo piano. Arriva a un certo punto una barca a soccorrerlo e lui risponde così: “No, rimango perché ho fede in Dio”, poi l’acqua sale ancora e lui sale al 2° piano. Arriva un’altra barca a soccorrerlo e lui soggiunge: “Resto, perché ho fede in Dio”. L’acqua continua ad aumentare: l’uomo è costretto a salire sul tetto. A quel punto arriva un elicottero che gli getta una corda e lui ancora: “No, resto perché ho fede in Dio”. Dopo di che l’acqua raggiunge il tetto, lo travolge e lui annega. Arriva poco dopo alle porte del Paradiso, vede San Pietro e si lamenta con lui: “Come mai è successo questo? Avevo riposto tutta la mia fede in Dio e sono annegato!” e San Pietro serafico gli risponde: “Non so di cosa ti lamenti: noi ti abbiamo mandato due barche e un elicottero!”

Ecco, esistono barche ed elicotteri intorno a noi e potremmo servircene per trarne beneficio. Certo, possiamo ricevere un supporto dagli amici o dalla famiglia, ma l’ideale è riceverlo da persone adeguatamente preparate, meglio ancora, le persone che abbiano la capacità di mettersi negli stessi nostri “panni”.

In conclusione, sembra voler dire Dale Larson, il servizio di cura ed assistenza, cioè l’essere al servizio degli altri, implica il prendersi cura di noi stessi. In questo caso una formazione specifica è fondamentale.

Questo libro va oltre il suo scopo, ci fa capire che non solo i caregiver, ma i medici, gli infermieri, gli insegnanti e quanti svolgono un’attività di servizio con forte coinvolgimento emotivo, si trovano continuamente sfidati a ricercare la “giusta distanza” che permette loro di essere adeguatamente coinvolti senza rovinare il rapporto professionale. Sfidati a mettere in pratica adeguate modalità di comportamento per evitare il rischio di scoppiare (burn out) e mantenere un proprio equilibrio, con un coinvolgimento emotivo adeguatamente distaccato, che non sia del tutto distaccato e tantomeno sia un coinvolgimento emotivo totale. Una sfida continua in cui ciascuno è chiamato a ricercare ogni volta un coinvolgimento adeguatamente distaccato (empatia), un modo di essere emotivamente coinvolti senza esserlo totalmente.

 

Vittorio Tripeni (2008), “Essere al servizio degli altri, implica prendersi cura di noi stessi”. Prevenzione Oggi (Ispesl), Supplemento numero 3, anno 2008, pag. 77-78

Le risorse della Psicologia e i soccorsi sanitari nelle catastrofi

Capita che durante l’estate, quando si ha la possibilità di “staccare” per un breve periodo di vacanza, si possa pensare al dopo, a progettare il futuro – di impegni e di svago – che riprenderà con il nostro lavoro in città. Per alcuni di noi l’anno inizia veramente il primo settembre. Quest’anno, però, a settembre ciascuno di noi ha dovuto rivedere i suoi piani. Per migliaia di americani addirittura la vita è stata interrotta all’improvviso, per altre migliaia è cambiata repentinamente e per milioni sta mantenendo una condizione di instabilità latente.

Eventi come quelli sopraggiunti a New York e Washington l’undici settembre scorso, ci obbligano a riflettere anche sul senso della nostra professione di psicologi e psicoterapeuti. Affinché dopo un primo disorientamento si consideri seriamente, sulla base delle evidenze, la importanza del contributo umanistico e umanitario, oltre che scientifico, della psicologia nell’ambito delle emergenze. In particolare l’impegno di persone professionalmente preparate ed esperte a garanzia di interventi specifici in occasione di incidenti critici o gravi calamità.

Il carattere improvviso, imprevedibile e drammatico, di tali eventi, colpisce fortemente la nostra sicurezza psichica. Gli effetti vanno molto al di là del reale pericolo che è “relativamente” limitato per la sopravvivenza delle persone. E’ soprattutto la nostra fiducia, o meglio il nostro bisogno di contare su un mondo costantemente stabile e prevedibile, a trovarsi fortemente scossa o seriamente incrinata. E questo incrinamento si rispecchia innanzitutto sulla fiducia in se stessi.

Tutto avviene come se i meccanismi e le forze che fino a quel momento hanno mantenuto un certo “ordine” o “equilibrio” naturale, vadano per un’altra via, quella del caos e del disorientamento. Queste condizioni di forti e drammatici cambiamenti richiedono altrettanto forti e veloci adattamenti. Gli stili di risposta delle persone – funzionali o disfunzionali che siano – possono essere molteplici. Nella maggioranza dei casi non hanno gravi conseguenze. Tuttavia nei momenti in cui è faticoso o difficile mettere in atto adeguati processi di coping o quando gli stress sono troppo prolungati, possono emergere problematiche di tipo psicologico tra le quali assume una certa “ridondanza” quella sindrome a tutti nota come PTSD (post traumatic stress disorder). Che tutta via non rappresenta l’unica e più frequente conseguenza psicopatologica dei disastri.

Sullo scenario dell’evento critico o della catastrofe, possiamo così immaginare – e drammaticamente vivere nell’esperienza diretta – la forza altamente sconvolgente degli eventi e il trauma, a vari livelli, delle persone coinvolte. E’ garantito che tutto sarà diverso da prima. Ma, nei momenti di pace, è lecito pensare ad un “prima”, cioè ad un sano e serio lavoro di prevenzione, per limitare i danni derivanti dagli eventi calamitosi. Facendo innanzitutto tesoro della esperienza personale e decidendo di “scambiare” tale nostra esperienza con quella di altri. Per crescere insieme e affrontare insieme i nuovi problemi che ogni emergenza porta con sé.

 

Ecco che allora gli psicologi potrebbero investire o “arrischiare” le loro capacità professionali per rispondere con competenza alle chiamate delle emergenze ed essere all’altezza del compito ad essi richiesto.

Altre categorie professionali lo stanno facendo da tempo ed è giusto che ognuno presti la propria opera e sappia fare bene il proprio lavoro: il medico, l’infermiere, il tecnico, il volontario … e lo psicologo.

Questo è anche quanto sottende l’articolato “Criteri di massima per l’organizzazione dei soccorsi sanitari nelle catastrofi” (suppl. ordinario alla GU n.109 del 12 maggio 2001 – serie generale), sul quale ritorneremo in chiusura.

 

Vale quindi la pena tentare una definizione approssimativa del concetto di psicologia delle emergenze, che a tutta prima è del tutto superfluo ben sapendo che “la psicologia è una sola”. Risulta però utile soprattutto sul piano operativo, perché offre la possibilità di utilizzare una “cornice” e dei riferimenti molto promettenti per la ricerca sul campo e gli interventi diretti.

In questo ambito specifico la nostra disciplina si occupa dei comportamenti e in particolare delle problematiche di tipo psicologico che generalmente si manifestano in situazioni di emergenza. Per ottimizzare gli interventi di aiuto verso le persone coinvolte in incidenti critici e/o gravi calamità e individuare quei sistemi di trattamento più idonei ad evitare nelle persone effetti psichici negativi oppure a ridurne al minimo le possibilità di insorgenza.

Tiene perciò conto del “fattore umano” nel contesto delle emergenze. Studia il comportamento umano prima, durante e dopo un evento critico, in relazione alla personalità, alla motivazione, ai livelli d’ansia e di aggressività, alle dinamiche di gruppo nelle prove collettive. Perché le persone coinvolte sperimentano situazioni psichiche estreme e corrispondenti sensazioni impulsive che non è dato verificare nelle normali situazioni.

 

La psicologia delle emergenze dovrà costituire un corpus di conoscenze sulle attività di intervento sul campo, per migliorare la efficacia delle prestazioni e il benessere delle persone, conoscenze psicologiche che ogni operatore dell’emergenza o della sicurezza dovrebbe avere o utilizzare nella sua interazione con le persone alle quali presta aiuto o assistenza.

Gli interventi della psicologia delle emergenze riguardano anche la selezione del personale, attraverso opportuni interventi rivolti a individuare le attitudini specifiche in vista delle attività e delle aree di applicazione. Sono importati anche per la razionalizzazione dei sistemi di apprendimento e la formazione, attraverso misurazioni del rendimento e delle prestazioni.

In questa prospettiva essa dovrebbe occuparsi anche delle indagini psicosociologiche in vista dei rapporti interpersonali, del comportamento in situazioni eccezionali, della motivazione, delle relazioni tra leadership e consenso, del maggiore o minore adattamento dell’individuo al gruppo dei compagni e al sistema organizzativo. A delle tecniche di cooperazione e di empowerment in ordine allo spirito di collaborazione, alla sopravvivenza, al superamento della sfiducia e delle crisi di angoscia, al ruolo e alle modalità di comunicazione dei mass media in situazioni di emergenza o disastri.

La psicologia delle emergenze coinvolge anche gli psicoterapeuti e li impegna a fornire risposte puntuali alle difficoltà di coping delle persone coinvolte nelle emergenze e intervenire nei casi più gravi per seguire con scienza e coscienza le persone colpite più pesantemente.

Non si può dimenticare però che, se da una parte è la cultura dell’emergenza quella che prevale, dall’altra è completamente trascurata la cultura del rischio cioè quella attenzione rivolta alle capacità di gestione delle eventualità di subire danni, con conseguenze che tutti conosciamo.

 

E’ vero, con l’emergenza siamo istintivamente coinvolti, la gestione del rischio però è un’altra cosa, perché innanzitutto richiede un certo grado di consapevolezza e poi competenza, attenzione, organizzazione, risorse e, soprattutto, implica assunzione di responsabilità e mantenimento della giusta distanza emotiva.

Nel campo delle emergenze la professione e la professionalità dello psicologo possono contribuire sensibilmente alla qualità degli interventi e alla organizzazione dei soccorsi sanitari in occasione di calamità e catastrofi così come possono dare un contributo importante alla valorizzazione (in termini di qualità della relazione e prevenzione dello stress degli operatori) del servizio garantito dalle Centrali Operative 118.

Se si prende in considerazione il provvedimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Protezione Civile “Criteri di massima per l’organizzazione dei soccorsi sanitari nelle catastrofi”, pubblicato sul supplemento ordinario alla GU n.109 del 12 maggio 2001 – serie generale possiamo rilevare che esso chiama direttamente in causa la professione dello psicologo. In modo specifico all’art. 1.1 (definizione), all’art. 1.7 (funzione di supporto n.2), all’art. 1.9.2 (eventi attesi); nonché agli artt. 3.2.1 e 3.2.3 (evento catastrofico che travalica le potenzialità di risposta delle strutture locali). Imponendo di occuparsi attivamente del sostegno psicologico delle persone e delle popolazioni (non tenendo però conto del sostegno psicologico ai soccorritori).

 

Entrando nei dettagli, vediamo che già nella Premessa, si parla di “organizzazione dei soccorsi sanitari durante una catastrofe …” coinvolgendo direttamente la psicologia come professione sanitaria (volta cioè a tutelare la salute dell’uomo).

Quando definisce il piano di emergenza (art. 1.1) la norma motiva a tener conto degli aspetti fisici e psicologici al fine di ristabilire le condizioni di vita. Viene infatti detto che (il piano) ” … è lo strumento che consente alle autorità competenti di predisporre e coordinare gli interventi di soccorso a tutela della popolazione e dei beni in un’area a rischio, e di garantire con ogni mezzo il mantenimento del livello di vita “civile” messo in crisi dalla situazione che comporta necessariamente gravi disagi fisici e psicologici”.

Ciò che non è stato scritto, ma può essere legittimamente sostenuto, riguarda la necessità di garantire una condizione e un livello di vita che non favoriscano una traumatizzazione secondaria. Pertanto è del tutto fondato porre l’accento sulla importanza della psicologia anche nella prevenzione, ad esempio, degli stati di PTSD.

All’art. 1.7 , si afferma che le tematiche sanitarie affrontate nella pianificazione dell’emergenza sono varie e molteplici anche se “abbastanza comunemente, il settore viene limitato alla medicina d’urgenza”.

Aggiunge però che “in realtà, l’intervento sanitario in seguito a un disastro deve far fronte ad una complessa rete di problemi che si inquadrano nell’ambito della medicina delle catastrofi e che prevedono la programmazione ed il coordinamento delle seguenti attività: primo soccorso e assistenza sanitaria, interventi di sanità pubblica, attività di assistenza psicologica e di assistenza sociale alla popolazione”. Come si vede, lo psicologo viene chiamato in causa direttamente, essendo la assistenza psicologica peculiare attività degli psicologi. Pertanto, anche quando nello stesso articolo, all’ultimo comma, si dice esplicitamente che la vastità dei compiti “presuppone, soprattutto in fase di pianificazione, il coinvolgimento dei referenti dei vari settori interessati tra cui i rappresentanti di: …. Ordini Professionali di area sanitaria” vengono chiamati in causa gli psicologi e in particolare gli Ordini Regionali e l’Ordine Nazionale degli Psicologi.

 

Anche nel successivo art. 1.8, che riguarda le Centrali operative sanitarie 118, la norma chiama direttamente in causa la nostra professione quando, riconoscendo che la Centrale operativa 118 “costituisce l’interlocutore privilegiato in campo sanitario”, sottolinea che la centrale operativa “dovrà individuare i maggiori rischi sanitari che insistono sul proprio territorio in modo da prevedere un’organizzazione sanitaria in grado di fronteggiare gli eventi catastrofici più probabili”. Individuare i maggiori (inteso come più importanti o prevalenti) rischi sanitari significa anche tener conto della gravità, prevalenza, ricorrenza, di alcuni traumi psichici direttamente correlati con gli eventi catastrofici più probabili. Anzi, ci permettiamo di dire che se si possono definire alcuni degli eventi catastrofici più probabili, si possono anche definire alcuni dei traumi psicologici più probabili.

 

L’art. 1.9.2 – “Eventi attesi”, impone la redazione di un elenco dei rischi che interessano il territorio, sottolineando che “nella valutazione degli eventi attesi sarà utile, ai fini dell’organizzazione del soccorso sanitario, tener conto di alcune ipotesi di rischio associabili ai rischi principali …” Varie conseguenze possono essere valutate già nella pianificazione delle risposte come gli effetti sulle persone (lesioni o morti).

 

Non vi è dubbio che con il termine “lesioni” si faccia riferimento a vari traumi che, per quanto riguarda il campo di attività degli psicoterapeuti, potranno essere differenziati in traumi psichici diretti e indiretti, correlati agli eventi.

Il documento al quale facciamo riferimento risente purtroppo di una formulazione che risale a circa dieci anni fa e pertanto non ha avuto modo di sottolineare quanto sia importante prestare attenzione ai traumi a carico dei soccorritori nonché alla garanzia delle condizioni di salute nei luoghi di lavoro prevista dalla legge 626.

 

Ribadendo (all’art. 3.2.1) la complessità dell’argomento in fatto di coordinamento degli interventi, fa ancora un esplicito riferimento al “sostegno psicologico alle popolazioni sinistrate” non esplicitando minimamente la importanza di un intervento a favore dei soccorritori traumatizzati (traumatizzazione vicaria).

 

All’art. 3.2.2 (valutazione della situazione), quando tratta della valutazione presumibile del numero di (morti e di) lesi, la natura delle lesioni prevalenti, la situazione delle vittime, la situazione dei profughi (da intendersi come: coloro che sono costretti a lasciare il luogo in cui abitualmente vivono) e il loro stato psicologico è chiaro il coinvolgimento della nostra professione, anche se esplicitamente previsto solo verso i profughi. Tutto ciò dovendosi imputare ad una formulazione che probabilmente ha tenuto conto più della situazione medica e meno della situazione psicologica. Anche in considerazione del fatto che, a quell’epoca, i progressi e i contributi scientifici delle realtà estere (USA, Inghilterra, Finlandia, Australia, ecc.) erano ancora sconosciuti o limitati nel nostro paese.

 

In conclusione, l’invito a investire le competenze della psicologia e le esperienze degli psicologi nel vasto e complesso campo delle emergenze è chiaro. Nell’economia di questo scritto ci siamo limitati ad evidenziare soprattutto le emergenze legate alle catastrofi, ma è evidente che gli sconvolgimenti sempre più frequenti – in situazioni e condizioni diverse – sono una chiamata importante e una sfida che è importante raccogliere.

 

titolo: Le risorse della Psicologia e i soccorsi sanitari nelle catastrofi

autore: Vittorio Tripeni

argomento: Psicologia Emergenza e Psicotraumatologia

fonte: Vertici Network

data di pubblicazione: 12/11/2001

 

pubblicato in forma ridotta anche sul notiziario OPL (Ordine degli Psicol della Lombardia), n, 1 gennaio 2002

www.opl.it/allegati/Numero%201%20gennaio%202002.pdf

Somatopsicodinamica della depressione

La depressione è un’emozione che può divenire un sintomo, se non un aspetto caratteriale.

La psichiatria classica distingue la depressione in endogena ed esogena, ma se ci atteniamo ai principi energetici di Reich, possiamo individuare certi “blocchi” corporei come responsabili delle diverse manifestazioni della depressione e cogliere l’etiologia di essa molto meglio che la nosografia ufficiale ed attuale.

Rifacendomi a Wernicke, possiamo parlare di situazioni o di processi somato-psichici che ritengo più esatto definire somato-psico-dinamici. Intendo riferirmi ai concetti che sottolineano come ogni condizione di privazione, di perdita, mancanza, determinino una condizione “depressiva” che troveremo, pertanto, ancorata a diversi livelli muscolari del corpo.

Opino che vi siano quattro possibilità per tale ancoraggio, per cui quattro espressioni della psicopatologia depressiva.

La prima possibilità è data dalla depressione psicotica allorché il soggetto non è cosciente del suo stato depressivo, egli non lo “vede”: in tal caso è il livello ad essere bloccato. Il blocco del 1. livello, dei telerecettori cioè, induce la situazione psicotica in cui la depressione è l’aspetto saliente; il blocco di tale livello per l’insoddisfazione, la frustrazione avvenuta durante i primi giorni di vita determina la condizione psicotica che è da ritenersi fondamentale in ogni caso di “psicosi depressiva”.

La sintomatologia si presenta col mutacismo, con la catatonia, con l’esplosione di rapporti distruttivi, molto pericolosi per il soggetto e per gli altri. Per tali motivi come ho già scritto e detto altre volte, non si può parlare di specifiche psicosi, ma solo delle “psicosi”.

Seconda possibilità: dal momento che sappiamo che subito dopo la nascita, attraverso l’allattamento, è la bocca, cioè il 2. livello reichiano del corpo, che entra in funzione, va da sé che se la frustrazione esistenziale si verifica in tale periodo, implode tutta la sintomatologia definita “orale”. Dico “implode” perchè in tali casi si struttura un vero e proprio nucleo depressivo della personalità, pronto ad esplodere allorché determinate situazioni esistenziali fanno rivivere al soggetto le stesse penose emozioni neonatali. Tali emozioni rimosse sono legate ad un cattivo maternage o ad un precoce svezzamento.

In questi casi vi sono due possibilità di manifestazioni orali, quella cosiddetta insoddisfatta e quella rimossa. Nella prima si tratta di soggetti che hanno ricevuto frustrazioni relative all’allattamento: soggetti che hanno sofferto una fame di latte che arrivava o troppo poco o in ritardo, dando loro tutta la possibilità di fantasmatizzare, da cui, in clinica, la presenza di pseudo-allucinazioni. Tutto ciò si manifesta nella caratterialità adulta con una spiccata tendenza alla depressione profonda dell’umore che il soggetto cerca di compensare o di evitare attraverso l’abuso del cibo, dell’alcool, del fumo. È importante, in terapia, cercare di stabilire l’epoca in cui tale frustrazione si è verificata.

L’oralità rimossa, si installa invece per uno svezzamento troppo precoce: la paura e la rabbia provata dal neonato in tale circostanza si manifesta in seguito con una contrazione cronica dei muscoli masseteri; spesso la mandibola è quadrata ed il soggetto parla fra i denti. Tale frustrazione comporta una caratterialità aggressiva di tipo distruttivo, con mordacità e con una suscettibilità al limite della paranoia.

Si delinea così il soggetto borderline che può esplodere in manifestazioni psicotiche allorché il blocco energetico della bocca invade gli occhi, regredendo. Per tali soggetti tra compensazione avviene mediante un privilegiare il “piacere” degli occhi (in tal modo non si accumula energia) con la lettura, l’estetica, ecc., se non con la droga.

Prima di passare alla nevrosi depressiva è opportuno prendere in considerazione la cosiddetta sindrome maniaco-depressiva, la cui alternanza delle fasi corrisponde in chiave reichiana a situazioni nelle quali, per la fase depressiva, da parte del soggetto si ha difficoltà a “vedere” l’altro e se stesso (accomodazione, convergenza) e facilità a ,”rodersi dentro” (mordere) come ruminazione aggressiva. La fase maniacale è caratterizzata da una facilità di “guardare e guardarsi a destra e a sinistra” e nel contempo da un bisogno di “succhiare” facilmente tutto quanto attorno.

In termini di vegetoterapia vi è uno sfasamento tra il primo e il secondo livello con una funzionalità incoerente e discordante.

Nel quadro della depressione è necessario, inoltre, ricordare la forma depressiva criptica; tale sindrome, secondo me psicotica di fondo, è nascosta per la presenza di un “blocco” al naso (ne parleremo prossimamente) che “compensa” quello degli occhi e della bocca: la sintomatologia depressiva esplode o per lo “sblocco” improvviso del naso o perchè il blocco, come difesa, oltrepassa i limiti energetici. Il blocco del naso si accompagna sempre con quello del 6. livello, l’addominale.

Terza possibilità: in relazione alla nevrosi depressiva possiamo collocare l’ipocondria, quadro clinico in cui il soggetto è capace di vedere l’altro o se stesso, ma non con un ritmo alternato per ciò che concerne il 1. livello, bensì nei confronti del 2., della bocca; il funzionalismo, cioè, è fortemente disturbato.

Che tale sindrome sia a cavallo con la nevrosi depressiva lo dimostra la sintomatologia in cui prevale l’attenzione morbosa del soggetto per la propria salute, per il proprio corpo temuto malato, cioè per il proprio Io.

È secondo me, il 3. livello reichiano, cioè il collo, responsabile della vera e propria nevrosi depressiva o depressione nevrotica. Tale 3. livello arriva in basso fino alla linea mammillare; la clinica classica lo conferma e quella reichiana pure. Non si tratta, infatti, né di uno stato né di un processo depressivo nel senso vero dei termini: il soggetto “vede” bene la sua “depressione” che è, piuttosto, una invadente tendenza alla tristezza, alla malinconia, alla “nostalgia” romantica!

Il blocco di tale livello è predominante su quello orale ed impedisce al soggetto di superare una condizione psicodi-namica di ambivalenza, nel senso che per ciò che riguarda il solo blocco degli occhi e della bocca vi è una chiara situazione di dipendenza psicologica, mentre qui vi è anche la problematica di esserlo (dipendente) o non esserlo. Il soggetto desidera essere indipendente, ma c’è qualcosa di più forte di lui che lo… blocca.

Questa dipendenza è legata all’identità poiché un soggetto dipendente è uno che non ha avuto la possibilità di-superare l’identificazione e raggiungere quindi la sua identità. Il dipendente si identifica facilmente e l’identificazione è sempre quella con la figura materna, mentre con l’identità si raggiunge l’Io individuale.

Tale blocco della parte superiore del torace (sempre 3. livello) beneficia in vegetoterapia degli acting delle braccia e, poiché il torace inferiore (4. livello) è condizionato al diaframma (5. livello) è evidente che la nevrosi depressiva si evidenzia insieme a manifestazioni ansiose. Abbiamo, cioè, la depressione ansiosa, in tal caso è l’irrigidimento del collo (blocco) per il tentativo narcisistico di superare l’ambivalenza che comporta la partecipazione diaframmatica legata all’ansia e al masochismo: il soggetto è lamentoso, si ritiene incapace, sfortunato, ecc.

Un quarto tipo di depressione è quello legato a un blocco predominante del 7. livello (il bacino) insieme a residui di oralità insoddisfatta: è dovuto all’impossibilità da parte del soggetto di procurarsi o ricevere una ben soddisfacente gratificazione paragonabile all’equivalente del pia cere sessuale genitale. Tale impossibilità produce come reazione una manifestazione depressiva di tipo reattivo.

Si tratta di “disturbi” convergenti per cui, una volta che l’elemento esogeno è stato superato o eliminato, il soggetto ritrova la sua vitalità, anche se ulteriori frustrazioni potranno di nuovo temporaneamente “deprimerlo”.

Si potrebbe definire, allora, la depressione reattiva meglio come depressione isterica. E l’isteria, per le donne e per gli uomini, come diceva Reich, è l’anticamera della genitalità !

In tali casi vi è sempre una “componente” diaframmatici di masochismo, il che spiega le ricadute come coazione a ripetere.

Questo breve panorama della depressione interpretata in chiave reichiana, ci mette in condizione di poter fare a meno di una classificazione nosografica rigida e ancor più ci spiega perchè in psichiatria “certi” psicofarmaci aiutano solo “certi” depressi e non altri, ciò significa che “energeticamente” influenzano solo certi livelli, ma dal momento che ogni livello ha un substrato emotivo è ovvio che se il soggetto non ha avuto la possibilità terapeutica di esprimere le abreazioni, le ricadute saranno inevitabili.

 

Il linguaggio emotivo delle mani

Il terzo livello descritto da Reich è quello che parte dal collo e comprende le spalle con le braccia e naturalmente le mani, si spinge sino alla linea mammillare e vi include anche la zona alta del torace.  La lingua e la parte profonda della gola, ove si articola la voce, sono anch’esse di questo livello che in chiave energetica è strettamente collegato al settimo: quello della pelvi e delle gambe.

Alcuni individui, grazie allo stretto collegamento tra collo e pelvi, possono apparire come ingabbiati fra due morse: in alto, la gola contratta e strozzata e in basso il bacino carico di energia; perchè le due “aperture” sono legate e non permettono all’energia di fluire liberamente.  Tale dinamica, delinea alcune espressioni della corazza caratteriale come il carattere masochista e quello coatto.  Vale a dire quei soggetti che emotivamente bloccati, sono incapaci di percepire vegetativamente le mani, si muovono “con le gambe, senza sentimento” perchè non possono sentire ed esprimere il contatto e il vero amore.  Nel lavoro sono carichi di odio represso e invidia e tutto questo favorisce la messa in atto della formazione reattiva.

Ricordo, per coloro ai quali questo termine è nuovo, che la formazione reattiva è un meccanismo psichico inconscio in cui all’interno della corazza caratteriale gli impulsi di rifiuto o di odio o di distruttività vengono trasformati esattamente nel loro opposto.

Cito l’esempio di una moglie che può sembrare dolcissima e iper-protettiva con il marito per nascondere rancore e ostilità.  Oppure di colui che nell’attività lavorativa può apparire superattivo, zelante e al limite anche servile, per mascherare inconsapevolmente gli impulsi di odio feroce.  C’è da aggiungere che in una società come l’attuale la maggioranza degli individui cosi detti normali, dall’artigiano, all’operaio, al professionista, mette in atto nel proprio lavoro la formazione reattiva.  La gratificazione cioè non deriva dall’esplicarsi dell’azione ma dal giudizio che altri daranno di essa, dal successo o dal denaro che l’azione produrrà.

Il lavoro, di conseguenza, non viene inteso come piacere di fare e agire, di realizzazione individuale e sociale. Già nella Genesi il lavoro è inteso come punizione ed è in questo senso che sono fioriti i tanti proverbi e luoghi comuni. Espressioni popolari che derivano dal bagaglio inconscio dei bisogni, delle frustrazioni e dei loro impulsi nevrotici, non dalla sfera emotiva funzionale. Impulsi e bisogni che necessitano della formazione reattiva per essere tenuti a freno.

Le mani, dunque, sono collegate al collo che è punto di transizione tra la sensorialità del corpo e la elaborazione della coscienza; per questa ragione un collo libero dovrebbe essere un ponte tra genitalità e capacita funzionale del nostro pensiero fortemente vincolati in chiave emotiva-energetica.

È  da notare come i bambini psicotici, nel rappresentare la figura umana, generalmente disegnino persone con colli molto lunghi, così da mettere più “spazio” tra le sensazioni corporee e la capacità di percepirle.

Ciò che mi colpisce è quanto siano importanti le mani per ogni essere umano.  Servono per “toccare” l’Altro e il mondo, per l’attività lavorativa che dovrebbe occupare con piacere una larga fetta dello spazio sociale; sono dunque così vitali che l’uomo sa usarle ancor prima di nascere.

È  sorprendente vedere, tramite una ecografia, come il feto usi le mani: per succhiare il pollice, per toccare le pareti dell’utero o per afferrare le particelle nel liquido amniotico e portarsele alla bocca.

Una domanda senza risposta è: perchè il feto fa questo, dal momento che alla nascita lo avrà dimenticato? Perchè il neonato è in un certo senso “costretto” ad apprendere l’uso delle mani, quando nella vita fetale questa capacita esisteva? È  un quesito affascinante, al quale vorrei dare una mia risposta personale in un prossimo articolo.

L’uso delle mani, rappresenta per il neonato l’interazione con l’Altro ed è strettamente in rapporto con l’uso della bocca. Il bambino tocca il seno della madre mentre succhia e si porta “il mondo alla bocca”, perchè ogni cosa che percepisce con la lingua fa parte della indagine conoscitiva sull’esterno.  Le mani sono altresì oggetti transizionali, che in assenza della madre-oggetto assumono il compito di sostituirla. Il bambino in mancanza del capezzolo succhia il pollice e in questo modo la mano riveste la funzione dell’oggetto transizionale perchè consola il piccolo dalla sua solitudine.  Più tardi potrà essere un orsetto di pelouche da portarsi a letto ad esplicare le stesse funzioni.  Mani consolatrici e strumento di conoscenza, che nella vita adulta dovrebbero esercitare la mediazione tra la coscienza e la conoscenza, se non emergesse la corazza caratteriale-muscolare, con conseguente blocco più o meno intenso al terzo livello.

Le mani, come le gambe che costituiscono le propaggini del nostro corpo, rappresentano in modo palese la nostra capacità di amare, di muoverci verso il mondo in direzione dell’Altro che è fuori di noi.  Se non sono contratte, se sono vive ed energetiche possono stabilire il contatto con il mondo perchè le mani toccano il mondo come lo toccano i piedi appoggiati in terra e agiscono nel mondo attraverso l’attività lavorativa, come le gambe che si muovono nel camminare.

Le membra agiscono quindi per il mondo e verso il mondo, ed in senso funzionale per la vita.  Molto spesso però, “emotivamente” le gambe si muovono con difficoltà ed “emotivamente” le mani non sanno cosa fare.  Tanta gente spesso si domanda perché sia al mondo, perché vive, che cosa dovrebbero fare… e parecchi finiscono per fare mille cose senza alcun piacere o senza riuscire a portarne a termine una sola; ma sappiamo che il blocco al collo rappresenta il narcisismo e può provocare il blocco affettivo che è eterna insoddisfazione di tutto e di tutti e senso di inutilità.

Così il narcisismo secondario può spingere l’uomo ad una corsa affannosa al successo ed al denaro; ma può anche, inibendo “emotivamente” gambe e mani, indurlo a restare “fermo” e chiedersi che cosa deve fare e perché mai è al mondo.

La formazione reattiva alle volte viene messa in atto direttamente attraverso l’uso che si fa delle mani.  Alcuni individui, con una paura estrema del contatto e di conseguenza incapace di usare le mani, per “aprirsi al mondo” che non vogliono inconsciamente toccare, scelgono delle attività in cui è indispensabile una notevole destrezza manuale. Molti li possiamo ritrovare tra i filatelici, i tagliatori di pietre preziose, gli archeologi o i restauratori d’arte.  Freud definì ciò sublimazione e tale dovrebbe essere, se fosse veramente energia sublimata, ma purtroppo spesso è formazione reattiva perchè alla base di quelle scelte esiste una incapacità di amare non solo l’Altro, il mondo ma anche lo stesso lavoro eseguito con tanto scrupolo.

Ricordo un episodio che può meglio chiarire le mie asserzioni.  Un giorno scoprii che il massaggiatore professionista, cieco dalla nascita, dal quale mi recavo, si lavava a lungo le mani dopo ogni massaggio e non usava assolutamente creme e unguenti per il suo lavoro.

Una volta deliberatamente portai con me dell’olio di arnica affinché lo usasse per massaggiarmi. Fece una espressione disgustata dicendo che creme ed olii da massaggio non li sopportava e che piuttosto rinunciava a lavorare se qualcuno li avesse pretesi.  Così lo guardai con attenzione ripetere il lungo lavarsi delle mani che mi apparve senza più incertezze come un rituale ossessivo. Il massaggiatore forse a causa della sua infermità aveva scelto, mettendo in atto il meccanismo inconscio della formazione reattiva, proprio ciò che mai avrebbe voluto fare, toccare un corpo nudo.

Il rifiuto del contatto della pelle altrui in seguito assumendo carattere di fobia si era “spostato” sulle creme e sugli unguenti che simbolicamente rappresentavano il corpo umano vissuto dal suo inconscio come viscido e scivoloso.  La fobia è infatti lo spostamento di un sentimento, come la paura e il rifiuto, legato ad un oggetto interno, (il corpo nudo) su un altro oggetto (creme e unguenti) che per quanto riguarda il conscio dell’individuo non assolutamente in relazione con l’oggetto originario.

Non a caso la fobia del contatto che determina l’incapacità di amare e di provare piacere nell’attività lavorativa spesso si esprime con la necessita ossessiva di lavarsi ripetutamente le mani.

Gli psicotici fanno cattivo uso delle mani come d’altra parte delle loro gambe e non si tratta solo di una incapacità motoria.  Non hanno pieno contatto con i loro piedi sul terreno e si muovono spesso come automi; d’altro canto “non toccano” con le loro mani perchè lo fanno in modo stereotipato.

Un ragazzo psicotico già abbastanza inserito nel sociale, con una sua vita autonoma propria, era solito servirsi del manico di una qualsiasi posata per grattare ogni parte del suo corpo.  Camminando, le sue gambe apparivano contratte e rigide e appoggiava il piede solo sul tallone riuscendo in tal modo a deformare tutte le scarpe che in breve tempo assumevano la forma di quelle turche, con la punta all’insù. Il suo graduale progresso in psicoterapia è stato sottolineato sia dall’uso più funzionale delle mani che dal modo di calzare le scarpe.

Un bambino dell’età di quattro anni, molto disturbato anche se non autistico, camminava sempre sulla punta dei piedi tenendo le braccine all’indietro come fossero alucce. Era un bimbo che in effetti voleva “spiccare il volo” verso la regressione autistica ed il suo modo di procedere lo denunciava.

A parte i casi clinici rilevanti, ci sarebbe da chiedersi quanti nevrotici camminano in modo funzionale e sanno usare le mani altrettanto funzionalmente.  Se le nostre membra rappresentano il procedere verso il mondo, l’apertura ad esso e la capacità di amare, come possono funzionare da un punto di vista energetico se la conoscenza e l’amore sono così miseramente ridotti oggi sulla terra?

Negli actings di Vegetoterapia spesso le mani si muovono con difficoltà e può capitare che si blocchino in seguito a crampi intensi e diffusi che spaventano il paziente non ancora abituato a percepire la vita che scorre nelle sue mani.  Egli le guarda stendendole in alto sopra di lui e può non sentirle, non riconoscerle, trovarle brutte, staccate dal resto del corpo oppure senza vita.

Nell’acting del No o dell’Io in cui a braccia tese si fanno i pugni e si battono sul lettino, le mani parlano il loro proprio linguaggio in modo palese.  Quando un paziente nel battere i pugni controlla la caduta delle braccia, o il suo pugno rimbalza sul materasso come una palla, oppure dopo averlo battuto non indugia neanche un attimo e riporta immediatamente le braccia in alto, le sue braccia e le sue mani dicono che il suo No non è reale perchè egli ha ancora necessità di sentirsi dipendente dai propri fantasmi.  La sua autonomia è fiacca ed egli si attacca alla zattera della sua nevrosi che sebbene scomoda lo aiuta a giustificarsi e a commiserarsi.

Immaginiamo che per affermare simbolicamente la mia dignità di essere umano debba battere con un pugno il piano di un tavolo e dire No oppure Io.  La mia mano a pugno, se realmente sono determinata, è costretta ad indugiare, anche solo per un secondo, sul tavolo per sentenziare con la sua immobilità e forza il diritto alla vita!

Se un paziente dicendo Io batte il pugno con il pollice infilato e stretto tra le dita, le sue mani dimostrano che quel pugno non è di un adulto ma è quello di un neonato. Il suo Io stenta ad affermarsi e lo fanno vedere anche le braccia che in genere durante l’acting ruotano su se stesse

cosicchè il soggetto batte inconsapevolmente i pugni picchiando con le nocche anzichè con il bordo della mano; proprio come potrebbe fare un bambino molto arrabbiato di cinque o sei anni.

Ad un paziente che batteva i pugni tenendo il pollice teso verso 1’esterno quasi fosse dissociato dalle altre dita, gli feci notare, dopo ripetute volte, come non fossero veritieri quei pugni che mostrava.  Allora si ricordò quando da piccolo alcuni suoi compagni lo avevano picchiato e lui non fosse stato capace di contraccambiare quei pugni nemmeno per difendersi.  In casa sua l’aggressività come l’amore mai trasparivano dai componenti della famiglia e a lui erano richiesti soprattutto passività ed ubbidienza.  Così nella quotidianità della sua vita esprimeva quella ribellione antica ad una non motivata ubbidienza in modo reattiva e spropositata.  Quando si arrabbiava anche solo per delle inezie gli fuoriusciva dalla gola contratta una voce soffocata e stridula.  Se abbracciava qualcuno lo faceva in modo stereotipato magari dando delle pacche sulle spalle che palesavano quella sua aggressività repressa.  Avvicinando il suo volto ad un altro per baciarlo, il bacio schioccava nel vuoto come a dire che “baciava l’aria” oppure si limitava a porgere la guancia come fanno purtroppo tante persone che fingono di baciare.  La grande difficoltà di contatto e il totale disinteresse per l’Altro in lui si evidenziavano nell’andatura pesante, quasi animalesca, dove la fisicità della massa corporea sembrava semplicemente “spostarsi” e non “muoversi” nello spazio per andare incontro al mondo.

Le sue mani pur essendo belle e compatte erano senza vita, incapaci del minimo lavoro manuale e sul lettino dello studio si appoggiavano appena sul bordo esteriore del dorso invece di aderire al materasso.  Dopo gli actings agitava le dita rigide in modo stereotipato lamentando il bisogno di muoverle.  Da sempre cercava un’attività lavorativa soddisfacente.

I pazienti che hanno notevoli difficoltà di contatto in generale non possono appoggiare il palmo della mano sul materasso durante gli actings di  vegetoterapia  o  perchè  le dita s’ attanagliano al lettino o perché le unghie vogliono graffiare il lenzuolo o ancora  perchè  le mani  si  reggono
sui polpastrelli.

Il paziente di solito non si rende conto che spesso la sua mano sollevandosi si appoggia solo sul mignolo oppure è l’indice e il medio che sollevandosi restano in quella posizione anche per l’intera durata dell’acting.

È  sorprendente scoprire che con la mobilizzazione del collo e del torace, impostando quindi un nuovo modo di interagire, il paziente sappia poi abbandonare spontaneamente le sue mani che alla fine aderiscono distese sul materassino.

Questa incapacità di aderire (il soggetto per distendere le mani è costretto a contrarre le braccia) che in vegetoterapia manifesta difficoltà di contatto, trova spesso un suo riscontro nella insoddisfazione dell’attività lavorativa.

Atonia, che appare sempre indecisa e indifferente, per fare aderire le mani al materasso opera una contorsione delle braccia che risultano cosi appoggiate sul dorso anzichè all’interno come se dovesse ricevere una endovenosa.  Alle volte mi guarda come incantata sbarrando gli occhi. Il suo sguardo assume allora una espressione timorosa ma nel contempo vuota e assente.  In genere questo suo modo di guardarmi accade perchè non sa che cosa fare, come se nella sua attività lavorativa dovesse sempre prendere una decisione.  Molto spesso mi chiede cosa fare.  L’indecisione ma soprattutto la diffidenza riescono a rovinare anche quei momenti del suo lavoro e della sfera affettiva che potrebbero essere piacevoli e sereni.

Gabriella appoggia il braccio sul gomito e la mano sui polpastrelli come se premesse con forza sul materasso; mi parla in seduta sempre del suo partner e qualche volta dei suoi genitori.  Fa l’insegnante elementare ma questo lavoro sebbene riempia gran spazio della sua vita non emerge mai nella verbalizzazione. Gabriella si è scissa in due, una che va a scuola e che non comunica alle altre colleghe nulla che riguardi la sua vita privata e l’altra che viene da me e mi parla “soltanto” della sua vita intima.  Non riesce a stabilire un contatto autentico e gratificante sia nel suo lavoro che nella sua vita affettiva.

Le sue mani che comprimono ma non aderiscono lo denunciano chiaramente.  Preme e spinge in un’unica direzione in modo masochistico sul lettino dello studio (è la determinazione ad avere quel partner a tutti i costi) e punta le mani come quel giorno ormai lontano in cui avrebbe voluto puntare i piedi per ottenere l’affetto che oggi come allora non le viene offerto.

La carica libidica, unidirezionata, invadente, di tipo pregenitale, con cui vorrebbe investire l’oggetto e ottenere il contatto con il partner le torna indietro come un boomerang sotto forma di angoscia, caparbietà, insoddisfazione, senso di inutilità.

L’Amore che crede di possedere dentro di sé, che non può essere vegetativamente percepito, si traduce in un’ansia macroscopica da cui si sente travolta.

Voglio ora testimoniare come sappiano le mani comunicare il linguaggio emotive del nostro subconscio.

Osservando Pina mentre fissa a bocca aperta un punto luminoso sul soffitto vedo che la sua mano destra sta lentamente sollevandosi.  Pina se ne accorge e sbatte le palpebre inarcando le sopracciglia.  Ha fatto una cinquantina di sedute (due al mese), abbiamo iniziato il lavoro sul collo e sulle braccia ma, ogni tanto ritorno a questo acting per addolcirle la bocca che appare “caricata)” e rigida.  Non è una isterica, si dibatte al contrario tra un masochismo palese ed il suo fallico-narcisismo con tratti coatti che la riempiono di angoscia.

La paziente sbatte con forza la mano sul materasso continuando l’acting.  Ma la mano riprende a sollevarsi.  Manovra per tenerla ferma, non ci riesce.

Dico: – lascia fare alla mano ciò che vuole -. La mano si solleva sempre molto lentamente sino oltre il corpo disteso, mentre la sinistra è immobile.  Pina è visibilmente sconcertata.  Riabbassa la mano di colpo ma dopo un attimo quella sembra levitare. Dice  affannosamente:  –  non  controllo  più  la  mano…   –

E dopo un po’:ho perso il controllo della mano… come faccio? – La riabbassa sul lettino impetuosamente ma nel frattempo le faccio notare come invece riesca a controllarla.  Riprende l’acting ma dopo qualche minuto la mano torna a sollevarsi.  Sospira molto spaventata: ho paura, sei tu che I’attiri a te! –

Nella verbalizzazione dice che io sono una maga perchè con la mia energia attiro la sua mano e spesso le carpisco i pensieri, ma esce fuori la paura per gli schiaffi terribili che sino ad oltre trenta anni la madre autoritaria e despota le rifilava.  Emerge inoltre il ricordo di quando lei tornava a casa più tardi del previsto e restava chiusa fuori per ore ed ore anche se era notte, senza essere mai certa che quella porta si sarebbe aperta.  Questo succedeva quando all’età di otto o dieci anni indugiava fuori a giocare ma anche a trenta quando avrebbe dovuto avere una autonoma disponibilità del suo tempo.

Domando perchè dovrei attirare a me la sua mano destra. – Non so… – risponde pensierosa, – forse perchè sia buona. – Le faccio notare che non essendo mancina quella sua mano destra potrebbe picchiare, infatti per schiaffeggiare si usa la mano destra… Essendo poi io una “maga” so a priori la volontà di quella mano, so che vuole battermi come riflesso della madre, quindi “l’attiro” a me per neutralizzarla.

È  utile ricordare che l’acting eseguito da Pina, quello del punto luminoso, si riferisce principalmente al contatto primario con la madre.  Nelle sedute precedenti aveva già battuto i pugni sul materasso ma la figura materna con tutto il suo carico emotivo che ne sarebbe derivato non era mai comparsa.

Nel colloquio all’inizio della terapia mi aveva riferito con grande distacco e indifferenza il fatto che sua madre l’aveva sempre picchiata e che allo stesso tempo non aveva avuto dai genitori una benchè minima manifestazione di affetto.

Tutto ciò per confermare come il linguaggio delle mani, al di là dei gesti, esprima in modo palese e profondo il corpo dei sentimenti che solo all’uomo è dato di possedere.

 


  • Voglio precisare che la Vegetoterapia, quando considera il corpo umano a segmenti, lo fa esclusivamente in chiave metodologica poiché è implicito che ogni livello confluisca nell’altro e viceversa in quanto l’uomo è comunque sempre considerato nella sua totalità.