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Trasformare le disfunzioni e gli elementi critici in esperienze pro-positive

Star bene con se stessi e con gli altri è certamente un obiettivo ambizioso e faticoso da raggiungere, ma perseguibile con facilità proprio partendo dal presupposto che è un diritto dovere curare e confortare il proprio stato d’animo.

E dato che il benessere psicologico di ciascuno di noi dovrebbe essere considerato il nucleo fondamentale e indispensabile per una buona qualità della vita, ad esso dovrebbe essere conferito il giusto merito ed attribuito un adeguato valore.

Proprio per questo, chi si trova nella condizione di voler richiedere un supporto psicologico, ma non ha le possibilità economiche per conseguire tale obiettivo privatamente e deve purtroppo confrontarsi con liste d’attesa lunghissime per accedere ai servizi pubblici, va aiutato.

Dobbiamo essere consapevoli che, in tema di salute e qualità della vita, il lavoro – inteso in senso lato come investimento di energie personali per il conseguimento di un determinato fine – è innanzitutto una fonte di riconoscimento individuale e, di conseguenza, con un forte impatto sulla nostra identità sociale.
Se proviamo a renderci conto che viviamo la maggior parte della nostra giornata immersi nelle nostre attività di lavoro, non possiamo nasconderci che attualmente la qualità della nostra vita è rappresentata soprattutto dalla qualità della vita professionale; cioè dalla qualità del lavoro (sia quando c’è lavoro che quando non c’è).

Viviamo già da tempo una mutazione “genetica” nelle nostre condotte di lavoro. In alcune circostanze possiamo verificare una vera alterazione dei parametri qualitativi della nostra vita e sono presenti nuove disfunzioni che attualmente stanno affliggendo la salute delle persone.
Da una parte vi sono problematiche di tipo “fisico”: disturbi molto spesso cronicizzati e in stretto rapporto con la fatica mentale e lo stress; dall’altra sono evidenti le problematiche di natura “psichica” o “mentale”, derivanti da un non armonico rapporto con se stessi, i propri colleghi, i dipendenti, il lavoro e il ruolo.
Si tratta di campanelli d’allarme che mostrano molto chiaramente la necessità di una riflessione sulla salute al lavoro nell’attuale clima di accresciuta competizione e di cambiamenti nei modelli di occupazione e trasformazioni nelle pratiche professionali.

Con sempre maggiore frequenza oggi proviamo una certa inquietudine per le conseguenze di modelli organizzativi e di procedure di lavoro che sembrano aumentare soprattutto la gravosità dei carichi mentali.
Alla richiesta di fare presto, meglio e a meno costi, le aziende e le organizzazioni sono costrette a introdurre nuove pratiche e procedure organizzative che comportano l’assunzione di compiti nuovi e più impegnativi per le persone che vi lavorano.
Le difficoltà e i problemi nuovi, sono segnali che impongono di aggiornare i nostri strumenti professionali i quali, naturalmente, coinvolgono a vario livello specifiche competenze e professionalità.

Questo presuppone che venga posta una attenzione più marcata alla “socializzazione” della psicologia, che essa non resti solo appannaggio degli esperti, ma faccia parte delle competenze di base di ogni individuo: per la vita quotidiana, per il lavoro, per le relazioni che essa vorrà intessere.

Da qui la necessità di trasformare le disfunzioni e gli elementi critici emergenti in esperienze pro-positive, avviando interventi di formazione e di ricerca adeguati alle mutate condizioni.

La psicologia e gli psicologi non sono esclusi in queste trasformazioni. Perché ormai qualsiasi intervento di promozione della salute, qualsivoglia attività di prevenzione in fatto di salute, non può prescindere dalla cultura della psicologia
La psicologia ha davanti a sé una lunga strada di continua ricerca azione, un costante “cimento” che offrirà a ciascuno la opportunità di sentirsi al passo con le evoluzioni dei bisogni professionali autodiretti ed eterodiretti.

In questo faticoso momento dell’emergenza Coronavirus (in cui è forte anche il pericolo di una pandemia mentale) si parla spessissimo nei mass media soprattutto del disagio esistenziale, ma sono poco diffuse le conoscenze su quanto si può fare e si fa per promuovere il benessere psicologico.

La nostra iniziativa per promuovere il benessere psicologico si basa sulla convinzione, ormai diffusa, che il migliore modo di prevenire il malessere delle persone non è quello di intervenire direttamente su di esso, ma di perseguire iniziative volte a potenziare abilità fondamentali per l’adattamento nei diversi contesti di vita.

Le condizioni di autoefficacia in questo caso costituiscono gli indicatori più possibili di tali capacità e pertanto rappresentano fondamentali determinanti del benessere delle persone.
Occorre considerare gli individui come agenti attivi del loro sviluppo, perché essi sono in grado di trarre vantaggio dalle relazioni con se stessi, gli altri, il lavoro, la famiglia, ecc.

Ciò che contraddistingue le condinzioni di autoefficacia delle donne e degli uomini è la loro specificità: tali condinzioni variano in relazione alle diverse aree del funzionamento umano ed in relazione ai diversi ambiti in cui si declina l’esperienza individuale.
Molti studi, anche nel contesto italiano, hanno sottolineato l’importanza del senso di autoefficacia, nelle sue diverse articolazioni relazionali, nel promuovere il benessere psicologico ed ostacolare le condizioni di rischio.

Lo psicologo è in grado di fornire suggerimenti di indirizzo e intervento, per agevolare nelle persone le abilità cognitive, emotive ed interpersonali indispensabili per il loro benessere. Aiuta a riconoscere che le strategie proattive possono agevolare il benessere psicologico, legato alla attività lavorativa, all’allevamento dei figli, ecc.
Mettendo in evidenza che esse svolgono un ruolo importante anche sulla collaborazione e l’aumento di engagement dei collaboratori.
Prende parte attiva nella eliminazione di pregiudizi sul disagio psichico e facilita lo scambio di buone pratiche per agevolare nelle persone abilità cognitive, emotive ed interpersonali indispensabili per il loro benessere.
Rendendo così evidente che è sempre più necessario tener conto dei bisogni più esplicitamente e dichiaratamente psicologici e spirituali, per mantenere una sana e soddisfacente qualità della vita.

La linea d’ombra nella continuità dell’azienda familiare

Lasciare il timone è un’impresa eroica; il senior che lo cede compie un grande sacrificio. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquisire credito e ispirare fiducia, hanno sostenuto nel tempo gli investimenti d’energie e di capitali; allo stesso tempo hanno reso la sua vita un viaggio interessante ed avventuroso. In futuro sarà tutto diverso per lui.

Chi sarà chiamato a succedergli, ancora prima di assicurare continuità all’azienda e dare inizio ad un nuovo ciclo d’espansione, dovrà attraversare la sua linea d’ombra. Si troverà da una parte a sentirsi in obbligo di garantire la continuità aziendale – perché non è certo utile ad alcuno che l’azienda perda valore – dovendo allo stesso tempo assumersene le responsabilità.

Dall’altra parte proverà sentimenti ed emozioni contrastanti come ha descritto efficacemente in una bella canzone il cantante Jovanotti (cfr. La linea d’ombra, nell’album “l’albero”).

Egli da voce ad un giovane a cui è affidato un incarico di responsabilità e per la prima volta nella vita si trova a considerare quello che lascia e a non sapere immaginare ciò che troverà.
Incaricato di portare una “nave” verso una rotta che nessuno conosce in dettaglio e in un momento di stabilità precaria, egli considera quanto è più facile stare in mare se sono gli altri a far la direzione.

Gli è stato detto “che una nave ha bisogno di un comandante, che la paga è interessante e che il carico è importante”. Il pensiero della responsabilità però è enorme.

Quella del giovane protagonista – narra la canzone – è un’età in cui si sa come si stava e non si sa dove si sta andando e che cosa si sarà. Nella quale la dimensione delle responsabilità che si hanno nei confronti degli esseri umani che ti vivono accanto non è ancora ben chiara. Un’età dove ogni mossa “può cambiare la partita intera e si ha paura di essere mangiato”.

In cui non si sa ancora cos’è il coraggio, “se prendere o mollare tutto, se scegliere la fuga o affrontare questa realtà difficile da interpretare ma bella da esplorare”.

Tuttavia, pur non potendo ancora immaginare cosa avverrà, una volta “attraversato il mare e portato questo carico importante a destinazione”, quel timoniere accetterà un compito così sfidante e dirà che è pronto a partire. Studierà le carte e quando sarà il momento dirà “levate l’ancora diritta, avanti tutta: questa è la rotta, questa è la direzione, questa è la decisione”.

Tornando al passaggio del timone aziendale, dobbiamo riconoscere che in realtà è del tutto assente, nell’agire di molte aziende familiari, la definizione di obiettivi e modalità per raggiungerli e verificarli. Appare spesso inconcepibile, per l’imprenditore che vuole cedere il comando, riflettere sulla opportunità di pianificare una successione sulla base di una ponderata valutazione della strategia aziendale, delle deleghe da assegnare, delle competenze necessarie per raggiungere quegli obiettivi.

In un modo del tutto implicito, un senior si aspetta che anche i successori, da lui immaginati identici per competenze e conoscenze, riusciranno nell’impresa così come lui è riuscito a raggiungere il successo, superando le prove e gli ostacoli insiti nel proprio percorso imprenditoriale.

Quest’implicita riflessione o, meglio, attribuzione di senso e significato, porta il senior ad organizzare per il successore o i successori delle prove di ingresso che riecheggiano quelle alle quali egli è stato sottoposto in giovane età e che ritiene “naturale” far passare anche ai successori. Nell’inconscio tentativo di guidare il destino del figlio/figli, quasi fosse il prolungamento di quello proprio e in una dinamica emotiva, già nota alla psicologia sociale dalla seconda metà del secolo scorso, che Heider (1958) aveva definito con il termine Fundamental Attribution Error.

Ciò rappresenta un elemento di criticità, in quanto pone un insieme di problemi nei rapporti interpersonali e scarsa chiarezza di ruoli. Generando spesso, nella fase del passaggio generazionale e anche successivamente, conflitti a partire dalla omogeneità/eterogeneità degli schemi cognitivi (i cosiddetti assunti di base) delle persone in gioco e delle loro rappresentazioni della realtà e delle evoluzioni future.

Pertanto, non si tratta più semplicemente di un “ricambio” o “passaggio” generazionale quanto di una “integrazione” di generazioni; o, meglio, di una mediazione di punti di vista legittimamente differenti), volta a definire un piano di Sviluppo Generativo Competitivo, capace di creare nuove opportunità e nuove ricchezze per l’azienda e la famiglia.

Il benessere delle relazioni

Spesso quando incontro dirigenti o manager, per un parere professionale o anche per un breve scambio di impressioni a margine di un evento, ogni tanto li sento raccontare di “problemi umani” verso i quali provano una legittima difficoltà. A volte la situazione rischia di degenerare miseramente, in altre si corre anche il pericolo di essere oggetto di aggressioni verbali o fisiche. Talora non è infrequente incontrare elementi veramente difficili da gestire, eterni insoddisfatti, persone continuamente scontente che rendono la vita pesante a colleghi e collaboratori.

I miei interlocutori vogliono farmi capire quanto certe volte possa essere complicato, se non impossibile, portare avanti una iniziativa, una attività nuova o un progetto. Svolgere un compito di guida o di coordinamento, mantenere un minimo di agio all’interno di una riunione. Talora si fa molta fatica a organizzare le persone e il gruppo, farle partecipare attivamente, ricondurre le discussioni sul tema all’ordine del giorno, gestire le tensioni e i conflitti. Far fronte ai pensieri negativi, alle frasi killer, al fuoco incrociato per evidenziare tutte le difficoltà e tentare di affossare definitivamente l’idea.

Un collaboratore “problematico” è una spina nel fianco per un capo diretto. Talvolta, lo è anche per i suoi colleghi e spesso questi ultimi fanno pressione sul dirigente affinché egli possa risolvere il problema e faciliti un’atmosfera di lavoro più tranquilla. In alcuni casi la stanza del capo può diventare l’ufficio del pianto (“il mio ufficio è diventato un ufficio reclami …”) di eventuali clienti insoddisfatti o addirittura offesi dal comportamento del dipendente.

Sarà forse perché in azienda si è più interessati alla valutazione delle performance, ai bilanci e ai risultati delle vendite e meno all’interesse per le relazioni tra le persone che lavorano? Senza dubbio i numeri sono fondamentali per la sopravvivenza e il progresso dell’organizzazione aziendale e per la definizione delle strategie future. Tuttavia è necessario considerare che il successo passa anche attraverso un esame approfondito della disposizione mentale dei dipendenti e di quel loro patrimonio di competenze e abilità individuali specificamente umane. Ad esempio, chiedersi chi fa che cosa, come, in quale stato d’animo, è fondamentale per considerare il valore della relazione tra le persone e il loro lavoro.

Le aziende stanno di nuovo lasciando il passo a logiche autoritarie di funzionamento organizzativo. Probabilmente questo è dovuto ai cambiamenti in corso e soprattutto alla pressione del breve termine dovuta agli imperativi dei “numeri”, Ad esempio, è vero che i dirigenti attualmente sono meno numerosi di un tempo, tuttavia non è una spiegazione sufficiente quando alcuni di essi si fanno notare per il loro sbrigativo modo di porsi in relazione con i collaboratori.

Sembra quasi che la cultura manageriale moderna, in fatto di miglioramento dei processi comunicativi interni e di un cambiamento di cultura e di comportamenti nella gestione delle risorse umane, non sia ancora entrata del tutto nelle nostre aziende. Forse c’è una scusante, tenendo conto che i manager vengono valutati più volentieri rispetto alla realizzazione di risultati quantitativi (tassi di produttività, riduzione dei costi, standard di lavoro o quote di vendita) e quasi mai rispetto alle loro capacità di mettere in collegamento idee e persone. È raro che li si giudichi sulla base delle loro abilità di far crescere una equipe o sulla perizia di far crescere i propri collaboratori; ambedue elementi fondamentali per l’evoluzione dell’azienda e la sostenibilità organizzativa.

A loro volta molti i manager affermano che, per loro esperienza, è difficile ottenere i rendimenti desiderati senza esercitare una certa autorità sui dipendenti; che ci si arrabbia perché costoro non prendono iniziative e stanno ad aspettare che gli si dica cosa fare. Vero che si può ottenere, attraverso l’autorità, che i dipendenti eseguano i loro compiti, però … per ottenere di più, occorre farseli alleati, mobilitarli, ma soprattutto tenere conto delle loro attese di riconoscimento e rispetto. Ciò che di solito prelude a una maggiore motivazione.

All’interno delle aziende le difficoltà relative ai problemi tecnici sono abbastanza limitate; è veramente difficile riscontrare lacune nelle competenze specifiche (soprattutto se sono state ben valutate in ingresso). Tuttavia, nei gruppi di lavoro, tra le persone coinvolte in un progetto, talvolta, non è facile coordinare gli elementi e articolare le differenze. Il ruolo di responsabilità spesso richiede ora capacità prima impensate; ad esempio, fluidificare i meccanismi della comunicazione interna, lavorando sull’ascolto, la gestione dello stress e delle emozioni, i problemi relazionali. In azienda diventa sempre più importante “curare” un clima di reciproca fiducia e migliorare la coesione del gruppo dei collaboratori.

Chi dirige una azienda o è responsabile di un settore di essa, deve considerare che l’incremento della produttività e la qualità dei servizi si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e il benessere (nei termini di “qualità delle relazioni interpersonali”) nei luoghi di lavoro.

Contribuire alla qualificazione complessiva della comunicazione interna, migliorare il clima organizzativo, significa in sostanza agevolare le transazioni relazionali di chi vi lavora, metterne a punto i relativi meccanismi di regolazione per garantire il successo dell’azienda e dei suoi prodotti/servizi.

Le ricerche scientifiche di Psicologia delle Organizzazioni hanno da tempo dimostrando che chi lavora in un contesto relazionale sano e privo di tensioni, da alle aziende un netto vantaggio sulla concorrenza. Le aziende che investono sul clima interno ne traggono benefici, per il fatto che favoriscono un lavoro di qualità, una più grande creatività e un miglior servizio alla clientela. Riducono il numero dei contenziosi e mantengono un basso tasso di assenteismo. Riescono a far crescere i talenti migliori e fidelizzare le persone più competenti.

Promuovere il benessere delle relazioni che le persone hanno con il proprio lavoro e nei luoghi di lavoro, risolvere i problemi relazionali che intossicano l’atmosfera, è un investimento fondamentale per l’azienda. Soprattutto quando recuperiamo il valore delle persone valutando e, allo stesso tempo, incoraggiando un atteggiamento mentale positivo dei collaboratori.

I rapporti interpersonali, il clima relazionale ed organizzativo nei vari settori dell’azienda, il ruolo dell’emotività e della passione, sono alcuni degli elementi fondamentali costituenti le condizioni favorevoli per “fare squadra”, che scaldano i cuori e le menti delle persone e delle organizzazioni. Non basta mettere in atto una buona idea per renderla realtà operativa e nemmeno è sufficiente che il capo la comprenda perché i collaboratori la mettano in pratica.

La tecnica o le tecniche in questo caso non sono sufficienti. Ecco perché diventa legittima una psicologia delle risorse umane: in termini di opportunità di lettura, di messa a fuoco, necessaria per trovare il bandolo della matassa e avviare un processo di crescita a partire da una situazione critica. Una psicologia come “capacità relazionale”, di “comprensione della psicologia delle persone”, per fornire opportune chiavi di accesso ai problemi di comunicazione e permettere a ciascuno di aprire la porta alla sua personalità e trovare la propria strada, dando prova di intelligenza e autonomia.

Sviluppare capacità collaborative non è facile e tantomeno alla portata di ognuno. I manager tuttavia sono chiamati ad essere all’altezza del compito perché tale risultato è uno dei punti cardine delle loro capacità. Ovvio pertanto che dalla qualità del management dipenderà in gran parte il successo o l’insuccesso dell’organizzazione. Ma come può un manager garantirsi il successo?

È facile perdersi. Se proviamo a metterci nei panni di chi è chiamato a navigare in queste acque, è facile vivere insieme ad essi un senso di smarrimento.

A volte è stato sufficiente svolgere una serie di 8-10 incontri di consulenza, per risolvere in modo soddisfacente situazioni completamente degenerate, frutto di un lungo processo di impoverimento delle relazioni. Spesso i dirigenti, ne sono usciti più forti come persone di fronte alle reazioni emotive che prima li destabilizzavano e, ancora di più, l’apprendimento che ne hanno tratto, è stato acquisito per il resto della vita.

Talora è necessario ricreare una dimensione più umanizzata del lavoro e delle organizzazioni, tenendo conto che le conquiste tecnologiche sono per noi irrinunciabili, per la nostra crescita e il nostro benessere; allo stesso tempo, che le donne e gli uomini fanno la differenza, soprattutto per quanto riguarda il loro valore immateriale.

Dunque, diventa importante per il “capo” essere consapevole delle proprie capacità relazionali, farle emergere e canalizzarle, saper gestire le proprie difficoltà e diventare cosciente del loro funzionamento per aumentare la propria lucidità, per cambiare il proprio modo (legittimamente soggettivo) di vedere gli altri e le proprie relazioni. Apprendere a osservare con obiettività la propria situazione per rafforzare la efficacia delle proprie azioni e i relativi margini di manovra. Formarsi.

La proposta è quella di incentivare un’ecologia del lavoro e delle relazioni umane a tutto vantaggio delle aziende, dei loro clienti e, naturalmente, di chi vi lavora. Insomma, scoprire che si può lavorare e allo stesso tempo si può anche vivere in salute e trarre soddisfazione da ciò che si sta facendo. Questo, va a vantaggio delle persone e delle loro relazioni, ma è anche un’opportunità – in termini di valore aggiunto – per le aziende.

Bisogna ascoltare, fare un uso intelligente delle competenze dei collaboratori e prendere in considerazione (far emergere dalla loro esperienza diretta) ciò che occorre per far crescere l’azienda, in modo da interessare le persone al processo collettivo. A partire dal momento in cui si da la parola ai nostri collaboratori e in cui si prendono in considerazione le loro conoscenze, la qualità delle decisioni che vengono prese da noi è naturalmente migliore. Inoltre, se le persone sono coinvolte nella ricerca di soluzioni, esse saranno anche più motivate a metterle in pratica. E in genere fanno di tutto perché la cosa vada in porto, anche se in partenza esse potrebbero trovarsi in difficoltà.

Vittorio Tripeni
psicologo del lavoro e delle organizzazioni

( pubblicato anche in: https://hei.network/wp-admin/post.php?post=5852&action=edit )

Le influenze naziste sul management moderno

Nel suo libro Libres d’obéir: le management, du nazisme à la RFA, appena pubblicato da Gallimard, lo storico Johann Chapoutot mette in evidenza una certa continuità tra le pratiche organizzative del regime nazista e quelle che ritroviamo oggi oggi nelle nostre aziende.
Una tesi che farà discutere a lungo ma che vale la pena considerare.


Non è la prima volta che Johann Chapoutot, storico tedesco e professore all’Università della Sorbona, avvicina il Terzo Reich al nostro presente. Di libro in libro, si sforza di dimostrare che il nazismo non era una parentesi della storia ma piuttosto un infante della modernità occidentale. Concentrandosi oggi sul mondo del lavoro, mostra come l’approccio manageriale e le tecniche sviluppate dai leader nazisti hanno continuato ad essere utilizzati molto tempo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ed è così ancora oggi.
L’autore, riportando alla luce i trattati dell’organizzazione del lavoro degli alti funzionari del Terzo Reich, fa emerge un “linguaggio che il nostro mondo, la sua organizzazione sociale e la sua economia usano”, come “elasticità”, “performance”, “produttività” , “iniziativa creativa”, “redditività” … Ovviamente Chapoutot non afferma che la Repubblica di Weimar ha inventato il management moderno, ma mostra come i nazisti pensarono di ottimizzare l’organizzazione della forza lavoro, fino a diventare momento “matrice” (pag. 16) della teoria e della pratica del management del dopoguerra.

Attraverso la figura di Reinhard Höhn, al quale dedica gran parte del suo saggio, Chapoutot mostra che gli alti funzionari nazisti hanno riflettuto molto presto sulle questioni relative all’organizzazione del lavoro.
A Reinhard Höhn, un giovane avvocato brillante e funzionario della SS, viene affidato il compito di pensare al modo migliore per amministrare l’immenso territorio del Reich con mezzi ridotti. Il Reich si è ampliato in modi senza precedenti nella storia tedesca, e poiché ci sono sempre più uomini in uniforme, ci sono meno “risorse umane” alle spalle. Si deve dunque pensare alla trasformazione dell’amministrazione, per fare di più con meno. Inoltre, in campo economico, si tratta di produrre quantità assolutamente incredibili di armamenti per conquistare l’Europa, dall’Atlantico agli Urali. È in questo contesto che Reinhard Höhn svilupperà la sua concezione di Menschen-führung, “la guida delle persone”, una parola inventata per parlare di management perché i nazisti rifiutano di usare termini inglesi. Ciò che è interessante è che dopo il 1945 questa concezione continuerà ad alimentare il mondo del lavoro in Germania. Beneficiando delle leggi di amnistia del 1949, Reinhard Höhn sarà assunto da un sindacato dei datori di lavoro e, molto rapidamente, vedersi incaricato di creare una scuola per la formazione dei Quadri. Fu così che nel 1956 fondò l’Accademia di Bad Harzburg, nella quale formò un certo numero di dirigenti di grandi aziende tedesche.

Che si possa affermare con certezza l’esistenza di una matrice nazista del management forse non è possibile e non credo sia un’affermazione decisiva anche per l’autore. Tuttavia Chapoutot convince ricordando che il management, in quanto riflessione sulle modalità ottimali di strutturare una organizzazione produttiva, è in atto prima del nazismo. Fu il francese Henri Fayol, matematico e ingegnere, a gettarne le basi. Ma Fayol fu criticato dai nazisti per essere troppo cartesiano. All’epoca i nazisti criticavano i francesi per essere troppo autoritari nel loro stile di management. All’amministrazione francese, giudicata centralizzatrice, verticale, gerarchica, Reinhard Höhn opporrà la sua visione della Menschen-führung, “la guida delle persone”. Oppone dunque l’amministrazione francese al management alla tedesca che per lui vuole essere molto più liberale. I nazisti avevano capito che per essere in grado di produrre in modo così massiccio, era necessario motivare ciò che veniva chiamato “materiale umano”, che oggi viene chiamato risorsa umana. Ed è per questo che c’è una riflessione sulla gioia nel lavoro. Nel 1933 all’interno del Reich fu creato un gigantesco comitato aziendale, il Kraft durch Freude (KdF), “forza attraverso la gioia”, incaricato di organizzare le attività ricreative dei lavoratori.


Per i nazisti, dice Chapoutot, l’obiettivo era ricostruire la forza lavoro in modo che l’individuo fosse più produttivo. Il termine “performance” è fondamentale nel pensiero nazista, è un termine polisemico che significa allo stesso tempo produttività, prestazione, redditività. E per i nazisti, è molto chiaro che l’individuo non ha un’esistenza in sé, nessun diritto a parte la sua produttività. In altre parole, se non sei in grado di produrre per il Reich, non hai diritto alla vita. Il parallelo che vedo con l’idea contemporanea di rendere felici le persone sul lavoro che sostengono gli Happiness Managers è che essa non ha scopi filantropici. C’è un “progetto di business” dietro.

Buttando giù come una medicina amara le affermazioni di Chapoutot, percepisco l’utilità di questo suo contributo e rimango lucidamente inquieto di fronte al quadro che egli mi mostra. Soprattutto quando mi fa vedere anche come il regime nazista sia riuscito a creare un’organizzazione di lavoro non autoritario con il consenso generale intorno all’immaginario della “libertà germanica”. Un altro punto in comune con le organizzazioni attuali: le nozioni di piacere e svago. Se “non è ancora il momento del calcio balilla, delle lezioni di yoga o dei Chief Happiness Officers (…) il principio e lo spirito sono gli stessi”, sottolinea lo storico. I lavoratori obbediscono alla Führung, una “forma di potere che impone loro i fini da raggiungere, ma che trasferisce su di loro la responsabilità dei mezzi, perché non è solo nel modo di raggiungere questi obiettivi che sono liberi di agire”.

Johann Chapoutot è professore di storia contemporanea all’Università di Paris-Sorbonne, dopo essersi interessato al regime nazista in opere come Histoire de l’Allemagne (de 1806 à nos jours), pubblicato dal PUF (Que sais-je) nel 2014 o La Révolution culturelle nazie (Gallimard, 2016), ha scritto Libres d’obéir: le management, du nazisme à la RFA (Gallimard, 2020), in cui si concentra particolarmente sui metodi di Menschenführung, che traduce e germanizza il concetto anglosassone di management.

La leadership che verrà

Attraverso la robotizzazione e la digitalizzazione il lavoro sta cambiando forma e, di conseguenza, subisce una trasformazione anche la “presenza” umana al lavoro. Alla luce delle sfide che le aziende stanno affrontando, quali saranno le competenze chiave per mobilitare i collaboratori e raggiungere il successo? Quale potrebbe essere un profilo tipico del leader di domani?

Attraversiamo una lunga fase di mutevoli e continui adattamenti. All’interno di uno scenario che da tempo – e a ragione – viene indicato attraverso l’acronimo VUCA

La V (volatility) della volatilità, si riferisce alla natura e alle dinamiche dei cambiamenti caratterizzati da fluttuazioni, turbolenze e disruption. Un fenomeno che si sta verificando con maggiore frequenza rispetto al passato ed è incrementato, oltre che dalla liberalizzazione del commercio e della concorrenza globale, dalla crescita esponenziale della digitalizzazione e della connettività. Maggiore è la volatilità, più i cambiamenti sono veloci. Ragion per cui la natura, i ritmi e l’ampiezza di ciò che cambia non sono più prevedibili e non è possibile ricondurre il cambiamento ad un quadro di riferimento conosciuto e stabile.

La U (uncertainty) indica l’incertezza o la mancanza di prevedibilità degli eventi. Oggi è praticamente impossibile utilizzare le esperienze passate per prevedere il futuro, in quanto il futuro ormai non rappresenta più una pacifica proiezione del passato. Basarsi sulle esperienze trascorse per fare previsioni non ha più senso e all’incertezza si accompagna spesso la difficoltà di comprendere pienamente cosa sta succedendo. Più il mondo è incerto, più difficile fare previsioni e più complicato prendere decisioni sensate.

La C (complexity) è quella della complessità. Caratteristica di un aggregato organico e strutturato in parti tra loro interagenti, in base alla quale il comportamento globale del sistema non è immediatamente riconducibile a quello dei singoli elementi, perché dipende dal modo in cui essi interagiscono. Un contesto è tanto più complesso quanto più i fattori da considerare sono numerosi, diversi tra loro e diverse sono le relazioni tra gli elementi. Questo è quanto sta accadendo nella vita delle nostre aziende, dove aumentano sempre di più fattori interni ed esterni da gestire contemporaneamente. Ad esempio, la maggiore capacità di interconnessione, aumenta la complessità del sistema e questo rende sempre più complicato analizzare la quantità complessiva delle informazioni.

L’ultimo elemento in gioco è la ambiguità (ambiguity). Cioè la difficoltà di farsi un’idea precisa di ciò che sta accadendo. Poca chiarezza sugli eventi e, di conseguenza, difficoltà di decifrarli e addirittura comprenderli. Si presenta pertanto una situazione ambigua data la incompletezza delle informazioni, incompleta, contraddittoria o poco definita, che non permette di giungere a conclusioni certe. Sono occasioni in cui ci si trova di fronte a eventi che denotano incerta natura o provenienza, che lasciano perplessi sugli sviluppi o le intenzioni, che creano molta ansia.

Le organizzazioni del lavoro stanno affrontando cambiamenti impegnativi paragonabili a quelli che hanno preceduto il passaggio dal mondo agricolo a quello industriale. La digitalizzazione, la robotizzazione e l’intelligenza artificiale stanno cambiando radicalmente il mondo del lavoro. Gli artefatti tecnologici svolgeranno molte delle attività sinora eseguite dagli esseri umani e, allo stesso tempo, creeranno nuovi posti di lavoro, sosterranno nuove attività produttive di beni e di servizi.

Tutto ciò richiederà nuovi assetti organizzativi e modalità di gestione più appropriate delle risorse umane e delle relazioni di lavoro, sia nell’ambito dei rapporti tra persone che tra queste ultime e le tecnologie. Le evoluzioni nel mondo del lavoro e nelle organizzazioni del lavoro producono inevitabili disruption anche nel campo del management e della leadership. Al crocevia delle problematiche tecnologiche, strategiche e umane, la posizione del leader sarà davvero delicata.

Il management e la leadership hanno un’influenza diretta e tangibile sull’impegno dei dipendenti. Anche se rimane ancora valido il vecchio principio che la loro funzione è soprattutto quella di garantire una efficace collaborazione all’interno di un’organizzazione, sarà il modo di attuare questa collaborazione che avrà bisogno di adattarsi con le esigenze dei tempi attuali.

Molto probabilmente, alcune caratteristiche specifiche della leadership come passione, impegno, disciplina, carisma saranno combinate con nuovi valori: flessibilità, creatività, curiosità, innovazione, ottimismo. Un nuovo stato mentale dovrà essere coltivato, fatto di auto-accettazione, di umiltà, di resilienza. Grazie a una nuova modalità di porsi in relazione con gli altri, basata sulle competenze emozionali e comunicative, le situazioni difficili e gli inevitabili conflitti che inevitabilmente ne derivano, potranno essere gestiti. Tutte queste capacità dovranno essere dispiegate in un contesto dinamico, in perpetuo cambiamento. In definitiva, l’obiettivo principale sarà quello di sviluppare una serie di competenze per far avanzare l’intelligenza collettiva all’interno dell’azienda.

È certo difficile fare previsioni. Però trovo interessante uno scenario che è emerso già qualche anno fa, da una serie di interviste a un gruppo di esperti di fama internazionale realizzate da Suzanne Dansereau, delle quali è stata pubblicata un’ampia sintesi su Gestion, la rivista canadese di management (vol. 41/2016, pag. 70-73).

Tutti concordano sul fatto che in un ambiente volatile, incerto, complesso e ambiguo, la scelta di un leader non si concentrerà su competenze specifiche, ma sul suo potenziale di successo.

Ecco dieci qualità che lo aiuteranno a sviluppare questo potenziale.

A differenza del leader eroico degli anni ’80, egli si renderà conto che non potrà affrontare tutte le sfide che gli si presenteranno. E sarà consapevole che in un mondo digitale in cui tutto è interconnesso (interrelato/interdipendente), la sua influenza sarà limitata e non sarà più l’unico a essere in possesso delle risposte. Probabilmente non sarà in prima linea, ma piuttosto dietro perché il suo ruolo non sarà quello di comandare, ma di creare un contesto in cui tutti possano svolgere un ruolo di protagonista e quindi assumere la leadership, prendere il suo posto e realizzare progetti. In questo modo, la leadership nell’organizzazione di domani sarà federata. Ci sarà un leader al vertice, ma la funzione sarà ovunque nell’organizzazione e anche fuori perché il leader di domani non controllerà l’organizzazione ma soprattutto contribuirà a dargli forma.

La curiosità sarà una qualità essenziale. Il suo ruolo sarà quello di indirizzare nuove idee, assorbirle e tradurle in azioni concrete che permetteranno di cambiare le regole del gioco. Mentre il leader di ieri era un esperto nel suo campo e aveva una visione chiara delle azioni da intraprendere, quello di domani manifesterà una curiosità insaziabile, non solo sul campo che riguarda la sua azienda, ma anche in molte altre aree. Questo leader che vuole apprendere porrà molte domande piuttosto che offrire risposte.

Si dice spesso che il leader deve pensare fuori dagli schemi, ma domani penserà riferendosi a diversi “frame”. L’organizzazione non è più una macchina ma un organismo vivente, un sistema aperto. È finita l’epoca in cui un leader poteva tracciare un percorso seguito da tutti: il leader di domani dovrà affrontare imprevisti. Imparerà ad amare l’ambiguità perché questa imporrà “nuove abitudini mentali” che gli permetteranno di affrontare la complessità. Invece di gestire il probabile, il leader dirigerà il possibile; invece di cercare di rendere tutti d’accordo, adotterà diverse prospettive; invece di semplificare e ottimizzare le attività una per una, imparerà a distinguere dei sistemi; infine, invece di decidere e definire “la” strategia, sperimenterà alla periferia, attraverso verifiche che potrebbero fallire senza minacciare l’impresa.

Durante la sua carriera, il leader del domani occuperà diverse posizioni, farà esperienze diverse. Potrà spostarsi anche in tutto il mondo e si confronterà con varie culture; molto probabilmente non rimarrà confinato solo nel suo paese, soprattutto perché una buona parte dei mercati sarà incuneata all’interno di zone in via di sviluppo.

Una delle grandi differenze tra il leader di domani e il leader di ieri sarà che dovrà eccellere in tutti i campi della comunicazione, sia di persona, sui social media, di fronte a un pubblico di 300 persone o parlando con dipendenti che lavorano a migliaia di chilometri da casa e che non si saranno mai incontrati. Queste abilità sono già ricercate più che mai, l’organizzazione chiede al leader di sapere come evidenziare i messaggi da trasmettere al pubblico, di sviluppare il potenziale della propria personalità digitale e, di conseguenza, migliorare l’immagine del marchio. Facendo molta attenzione, perché l’autenticità è fondamentale.

Il leader di domani dovrà essere vicino alle persone che lo circondano e non solo creerà legami ma li manterrà anche. Non vorrà vincere una discussione quanto essere in contatto con le persone. Non eviterà il conflitto, ma mostrerà rispetto ed empatia per gli altri pur non avendo paura dello scontro. Sarà pronto a dare di più e saprà che ne riceverà da parte degli altri. Più che mai, le relazioni saranno significative e autentiche. In effetti, la fine della leadership eroica annuncia l’arrivo di una cultura di stretta collaborazione. In questo contesto, la vicinanza è fondamentale.

Il necessario equilibrio famiglia-lavoro è diventato un tema importante per la generazione X. Il leader di domani sarà ancora più multidimensionale. Dovrà abbracciare la complessità, cogliere la moltitudine di punti di vista e opinioni e comprendere bene gli ambienti che sono spesso multiformi e multiculturali. Un buon bagaglio di esperienze e background variegato diventa estremamente redditizio in questo contesto.

Il leader di domani vorrà che la sua azienda abbia un impatto positivo sulla società, l’ambiente, il pianeta, oltre a creare valore per gli azionisti. Il mondo del lavoro richiede un leader sempre più responsabile, più etico, onesto e generoso; anche perché i dipendenti saranno orientati a scegliere un’organizzazione che li impieghi in funzione della sua missione, della sua responsabilità sociale, dei suoi prodotti, in breve degli impatti che tuto questo avrà sul bene comune. È quasi una certezza che in dieci anni, i rischi sociali e umani di qualsiasi progetto saranno anche calcolabili come i rischi ambientali. Agire in modo responsabile sarà nell’interesse di ogni azienda.

Dovrà avere il coraggio di agire, non aver paura di lasciare il confort per andare avanti, non rinviare decisioni difficili, dispiacere ad alcune parti interessate, avere il coraggio di dire la verità e non quello che gli altri vogliono sentire, saper riconoscere quando si sbaglia. Il leader dovrà incoraggiare tutto il suo staff a parlare francamente e offrire loro più opportunità di apprendimento non avendo paura che falliscano o cambino la loro organizzazione. L’intera attitudine al fallimento deve essere diversa: il fallimento insegna e rende umili.

Dal momento che sarà in grado di navigare da una cultura all’altra, il leader di domani sarà più aperto alla diversità. Cercherà di circondarsi non di persone che saranno come lui ma con persone che lo completeranno e che non penseranno come lui. La diversità sarà una leva. Per progredire, un’organizzazione che opera in un mondo complesso e ambiguo ha bisogno di diversità e “dissidenza costruttiva”. È tanto una questione di diversità culturale, etnica e sessuale quanto di diversità di valori. Il leader di domani avrà un maggiore rispetto per le differenze. La sua forza risiederà nella sua capacità di mettere in collegamento idee e persone.