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La famiglia è un luogo privilegiato in cui ci addestriamo all’esercizio del potere.

La famiglia è un  luogo privilegiato in cui ci addestriamo all’esercizio del potere.

 

Con questa affermazione Wood (1996) ci stimola a riflettere che la famiglia è la struttura sociale fondamentale che insegna come ottenere ciò che vogliamo dagli altri. E’ nella famiglia che impariamo come viene usato il potere e tutte le famiglie “funzionano” grazie al potere. Probabilmente abbiamo una concezione negativa con il potere – sembra voler suggerire Wood – perché gran parte della nostra esperienza con il potere è traumatica. Nella nostra vita abbiano iniziato ad essere amati, ma anche manipolati, controllati, puniti e addirittura maltrattati da persone di potere. Il potere della madre, del padre e a volte dei fratelli e delle sorelle maggiori è stato quello che ci ha fornito le lezioni più importanti e conformato le nostre convinzioni e i nostri atteggiamenti riguardo al potere. Forse questo è il motivo principale per cui noi cerchiamo di evitare il nostro stesso potere. Ne abbiamo paura.

 

Queste affermazioni trovano conferma in un’interessante teoria della competenza interpersonale e della socializzazione riguardante il sé nella famiglia formulata da L’Abate (1994), che sottolinea come la famiglia sia il setting principale all’interno del quale ha luogo lo sviluppo e la socializzazione della personalità.

 

In seguito L’Abate (1997) è riuscito ad illustrare le evidenze empiriche che portano a considerare la famiglia come il setting dal quale le inclinazioni della personalità e le loro devianze si sviluppano e si diffondono; puntualizzando una teoria evolutiva della socializzazione della personalità che considera le abilità di amare e di negoziare come le pietre angolari della competenza personale e interpersonale. Questa teoria afferma che noi abbiamo bisogno di trovare dei modi e dei mezzi per determinare le relazioni causali rilevanti sia a livello individuale sia al livello multidirezionale.

 

La personalità viene definita da L’Abate in base alle abilità di amare e di negoziare (L’Abate, 2000: 31). L’abilità di amare si riferisce in modo specifico all’ambiente familiare; l’abilità di negoziare, invece, concerne anche altri ambienti: la scuola, il lavoro, il tempo libero, i contesti di tempo e di spazio relativi agli spostamenti. Queste abilità vengono acquisite attraverso un processo di socializzazione derivante dai contributi familiari e culturali, influenzato a volte anche da fattori organici e genetici. L’individualità viene definita come il modo in cui una persona afferma, esprime e definisce la propria importanza all’interno di relazioni intime e non.

 

Dall’abilità di amare e dalla abilità di negoziare derivano le modalità dell’essere, del fare e dell’avere. L’essere deriva dall’abilità di amare. Fare e avere derivano dall’abilità di negoziare.

 

Scrive L’Abate che, nelle relazioni funzionali, essere, fare e avere sono bilanciati e vissuti in modo flessibile e appropriato. Nelle relazioni disfunzionali, fare e avere sono enfatizzati o intensificati a scapito dell’essere. Aggiungendo: “Essere, fare e avere possono apparire, ad una prima occhiata, concetti piuttosto astratti. Tuttavia, se vengono definiti attraverso risorse specifiche, sfociano in abilità osservabili – rispettivamente presenza, performance e produzione. Tutte e tre le modalità sono necessarie per vivere e per trarre gioia dalla vita. Essere implica un processo evolutivo nel quale l’abilità della presenza è necessaria – cioè, essere disponibile emotivamente nei confronti delle persone che si amano, il cui amore è reciproco. Esso viene definito dalla combinazione di due risorse: importanza e intimità. La negoziazione implica un processo di problem-solving, di contrattazione e di decisione che coinvolge sia il fare sia l’avere. Il fare o performance deriva dalla combinazione di informazione e servizi. La produzione è un’abilità che risulta dall’avere, in questo contesto, beni e denaro. La combinazione di fare e avere dà forma al costrutto di potere Coloro che possiedono queste modalità hanno potere su coloro che non le hanno” (L’Abate, 2000: 41)..

Le risorse della Psicologia e i soccorsi sanitari nelle catastrofi

Capita che durante l’estate, quando si ha la possibilità di “staccare” per un breve periodo di vacanza, si possa pensare al dopo, a progettare il futuro – di impegni e di svago – che riprenderà con il nostro lavoro in città. Per alcuni di noi l’anno inizia veramente il primo settembre. Quest’anno, però, a settembre ciascuno di noi ha dovuto rivedere i suoi piani. Per migliaia di americani addirittura la vita è stata interrotta all’improvviso, per altre migliaia è cambiata repentinamente e per milioni sta mantenendo una condizione di instabilità latente.

Eventi come quelli sopraggiunti a New York e Washington l’undici settembre scorso, ci obbligano a riflettere anche sul senso della nostra professione di psicologi e psicoterapeuti. Affinché dopo un primo disorientamento si consideri seriamente, sulla base delle evidenze, la importanza del contributo umanistico e umanitario, oltre che scientifico, della psicologia nell’ambito delle emergenze. In particolare l’impegno di persone professionalmente preparate ed esperte a garanzia di interventi specifici in occasione di incidenti critici o gravi calamità.

Il carattere improvviso, imprevedibile e drammatico, di tali eventi, colpisce fortemente la nostra sicurezza psichica. Gli effetti vanno molto al di là del reale pericolo che è “relativamente” limitato per la sopravvivenza delle persone. E’ soprattutto la nostra fiducia, o meglio il nostro bisogno di contare su un mondo costantemente stabile e prevedibile, a trovarsi fortemente scossa o seriamente incrinata. E questo incrinamento si rispecchia innanzitutto sulla fiducia in se stessi.

Tutto avviene come se i meccanismi e le forze che fino a quel momento hanno mantenuto un certo “ordine” o “equilibrio” naturale, vadano per un’altra via, quella del caos e del disorientamento. Queste condizioni di forti e drammatici cambiamenti richiedono altrettanto forti e veloci adattamenti. Gli stili di risposta delle persone – funzionali o disfunzionali che siano – possono essere molteplici. Nella maggioranza dei casi non hanno gravi conseguenze. Tuttavia nei momenti in cui è faticoso o difficile mettere in atto adeguati processi di coping o quando gli stress sono troppo prolungati, possono emergere problematiche di tipo psicologico tra le quali assume una certa “ridondanza” quella sindrome a tutti nota come PTSD (post traumatic stress disorder). Che tutta via non rappresenta l’unica e più frequente conseguenza psicopatologica dei disastri.

Sullo scenario dell’evento critico o della catastrofe, possiamo così immaginare – e drammaticamente vivere nell’esperienza diretta – la forza altamente sconvolgente degli eventi e il trauma, a vari livelli, delle persone coinvolte. E’ garantito che tutto sarà diverso da prima. Ma, nei momenti di pace, è lecito pensare ad un “prima”, cioè ad un sano e serio lavoro di prevenzione, per limitare i danni derivanti dagli eventi calamitosi. Facendo innanzitutto tesoro della esperienza personale e decidendo di “scambiare” tale nostra esperienza con quella di altri. Per crescere insieme e affrontare insieme i nuovi problemi che ogni emergenza porta con sé.

 

Ecco che allora gli psicologi potrebbero investire o “arrischiare” le loro capacità professionali per rispondere con competenza alle chiamate delle emergenze ed essere all’altezza del compito ad essi richiesto.

Altre categorie professionali lo stanno facendo da tempo ed è giusto che ognuno presti la propria opera e sappia fare bene il proprio lavoro: il medico, l’infermiere, il tecnico, il volontario … e lo psicologo.

Questo è anche quanto sottende l’articolato “Criteri di massima per l’organizzazione dei soccorsi sanitari nelle catastrofi” (suppl. ordinario alla GU n.109 del 12 maggio 2001 – serie generale), sul quale ritorneremo in chiusura.

 

Vale quindi la pena tentare una definizione approssimativa del concetto di psicologia delle emergenze, che a tutta prima è del tutto superfluo ben sapendo che “la psicologia è una sola”. Risulta però utile soprattutto sul piano operativo, perché offre la possibilità di utilizzare una “cornice” e dei riferimenti molto promettenti per la ricerca sul campo e gli interventi diretti.

In questo ambito specifico la nostra disciplina si occupa dei comportamenti e in particolare delle problematiche di tipo psicologico che generalmente si manifestano in situazioni di emergenza. Per ottimizzare gli interventi di aiuto verso le persone coinvolte in incidenti critici e/o gravi calamità e individuare quei sistemi di trattamento più idonei ad evitare nelle persone effetti psichici negativi oppure a ridurne al minimo le possibilità di insorgenza.

Tiene perciò conto del “fattore umano” nel contesto delle emergenze. Studia il comportamento umano prima, durante e dopo un evento critico, in relazione alla personalità, alla motivazione, ai livelli d’ansia e di aggressività, alle dinamiche di gruppo nelle prove collettive. Perché le persone coinvolte sperimentano situazioni psichiche estreme e corrispondenti sensazioni impulsive che non è dato verificare nelle normali situazioni.

 

La psicologia delle emergenze dovrà costituire un corpus di conoscenze sulle attività di intervento sul campo, per migliorare la efficacia delle prestazioni e il benessere delle persone, conoscenze psicologiche che ogni operatore dell’emergenza o della sicurezza dovrebbe avere o utilizzare nella sua interazione con le persone alle quali presta aiuto o assistenza.

Gli interventi della psicologia delle emergenze riguardano anche la selezione del personale, attraverso opportuni interventi rivolti a individuare le attitudini specifiche in vista delle attività e delle aree di applicazione. Sono importati anche per la razionalizzazione dei sistemi di apprendimento e la formazione, attraverso misurazioni del rendimento e delle prestazioni.

In questa prospettiva essa dovrebbe occuparsi anche delle indagini psicosociologiche in vista dei rapporti interpersonali, del comportamento in situazioni eccezionali, della motivazione, delle relazioni tra leadership e consenso, del maggiore o minore adattamento dell’individuo al gruppo dei compagni e al sistema organizzativo. A delle tecniche di cooperazione e di empowerment in ordine allo spirito di collaborazione, alla sopravvivenza, al superamento della sfiducia e delle crisi di angoscia, al ruolo e alle modalità di comunicazione dei mass media in situazioni di emergenza o disastri.

La psicologia delle emergenze coinvolge anche gli psicoterapeuti e li impegna a fornire risposte puntuali alle difficoltà di coping delle persone coinvolte nelle emergenze e intervenire nei casi più gravi per seguire con scienza e coscienza le persone colpite più pesantemente.

Non si può dimenticare però che, se da una parte è la cultura dell’emergenza quella che prevale, dall’altra è completamente trascurata la cultura del rischio cioè quella attenzione rivolta alle capacità di gestione delle eventualità di subire danni, con conseguenze che tutti conosciamo.

 

E’ vero, con l’emergenza siamo istintivamente coinvolti, la gestione del rischio però è un’altra cosa, perché innanzitutto richiede un certo grado di consapevolezza e poi competenza, attenzione, organizzazione, risorse e, soprattutto, implica assunzione di responsabilità e mantenimento della giusta distanza emotiva.

Nel campo delle emergenze la professione e la professionalità dello psicologo possono contribuire sensibilmente alla qualità degli interventi e alla organizzazione dei soccorsi sanitari in occasione di calamità e catastrofi così come possono dare un contributo importante alla valorizzazione (in termini di qualità della relazione e prevenzione dello stress degli operatori) del servizio garantito dalle Centrali Operative 118.

Se si prende in considerazione il provvedimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Protezione Civile “Criteri di massima per l’organizzazione dei soccorsi sanitari nelle catastrofi”, pubblicato sul supplemento ordinario alla GU n.109 del 12 maggio 2001 – serie generale possiamo rilevare che esso chiama direttamente in causa la professione dello psicologo. In modo specifico all’art. 1.1 (definizione), all’art. 1.7 (funzione di supporto n.2), all’art. 1.9.2 (eventi attesi); nonché agli artt. 3.2.1 e 3.2.3 (evento catastrofico che travalica le potenzialità di risposta delle strutture locali). Imponendo di occuparsi attivamente del sostegno psicologico delle persone e delle popolazioni (non tenendo però conto del sostegno psicologico ai soccorritori).

 

Entrando nei dettagli, vediamo che già nella Premessa, si parla di “organizzazione dei soccorsi sanitari durante una catastrofe …” coinvolgendo direttamente la psicologia come professione sanitaria (volta cioè a tutelare la salute dell’uomo).

Quando definisce il piano di emergenza (art. 1.1) la norma motiva a tener conto degli aspetti fisici e psicologici al fine di ristabilire le condizioni di vita. Viene infatti detto che (il piano) ” … è lo strumento che consente alle autorità competenti di predisporre e coordinare gli interventi di soccorso a tutela della popolazione e dei beni in un’area a rischio, e di garantire con ogni mezzo il mantenimento del livello di vita “civile” messo in crisi dalla situazione che comporta necessariamente gravi disagi fisici e psicologici”.

Ciò che non è stato scritto, ma può essere legittimamente sostenuto, riguarda la necessità di garantire una condizione e un livello di vita che non favoriscano una traumatizzazione secondaria. Pertanto è del tutto fondato porre l’accento sulla importanza della psicologia anche nella prevenzione, ad esempio, degli stati di PTSD.

All’art. 1.7 , si afferma che le tematiche sanitarie affrontate nella pianificazione dell’emergenza sono varie e molteplici anche se “abbastanza comunemente, il settore viene limitato alla medicina d’urgenza”.

Aggiunge però che “in realtà, l’intervento sanitario in seguito a un disastro deve far fronte ad una complessa rete di problemi che si inquadrano nell’ambito della medicina delle catastrofi e che prevedono la programmazione ed il coordinamento delle seguenti attività: primo soccorso e assistenza sanitaria, interventi di sanità pubblica, attività di assistenza psicologica e di assistenza sociale alla popolazione”. Come si vede, lo psicologo viene chiamato in causa direttamente, essendo la assistenza psicologica peculiare attività degli psicologi. Pertanto, anche quando nello stesso articolo, all’ultimo comma, si dice esplicitamente che la vastità dei compiti “presuppone, soprattutto in fase di pianificazione, il coinvolgimento dei referenti dei vari settori interessati tra cui i rappresentanti di: …. Ordini Professionali di area sanitaria” vengono chiamati in causa gli psicologi e in particolare gli Ordini Regionali e l’Ordine Nazionale degli Psicologi.

 

Anche nel successivo art. 1.8, che riguarda le Centrali operative sanitarie 118, la norma chiama direttamente in causa la nostra professione quando, riconoscendo che la Centrale operativa 118 “costituisce l’interlocutore privilegiato in campo sanitario”, sottolinea che la centrale operativa “dovrà individuare i maggiori rischi sanitari che insistono sul proprio territorio in modo da prevedere un’organizzazione sanitaria in grado di fronteggiare gli eventi catastrofici più probabili”. Individuare i maggiori (inteso come più importanti o prevalenti) rischi sanitari significa anche tener conto della gravità, prevalenza, ricorrenza, di alcuni traumi psichici direttamente correlati con gli eventi catastrofici più probabili. Anzi, ci permettiamo di dire che se si possono definire alcuni degli eventi catastrofici più probabili, si possono anche definire alcuni dei traumi psicologici più probabili.

 

L’art. 1.9.2 – “Eventi attesi”, impone la redazione di un elenco dei rischi che interessano il territorio, sottolineando che “nella valutazione degli eventi attesi sarà utile, ai fini dell’organizzazione del soccorso sanitario, tener conto di alcune ipotesi di rischio associabili ai rischi principali …” Varie conseguenze possono essere valutate già nella pianificazione delle risposte come gli effetti sulle persone (lesioni o morti).

 

Non vi è dubbio che con il termine “lesioni” si faccia riferimento a vari traumi che, per quanto riguarda il campo di attività degli psicoterapeuti, potranno essere differenziati in traumi psichici diretti e indiretti, correlati agli eventi.

Il documento al quale facciamo riferimento risente purtroppo di una formulazione che risale a circa dieci anni fa e pertanto non ha avuto modo di sottolineare quanto sia importante prestare attenzione ai traumi a carico dei soccorritori nonché alla garanzia delle condizioni di salute nei luoghi di lavoro prevista dalla legge 626.

 

Ribadendo (all’art. 3.2.1) la complessità dell’argomento in fatto di coordinamento degli interventi, fa ancora un esplicito riferimento al “sostegno psicologico alle popolazioni sinistrate” non esplicitando minimamente la importanza di un intervento a favore dei soccorritori traumatizzati (traumatizzazione vicaria).

 

All’art. 3.2.2 (valutazione della situazione), quando tratta della valutazione presumibile del numero di (morti e di) lesi, la natura delle lesioni prevalenti, la situazione delle vittime, la situazione dei profughi (da intendersi come: coloro che sono costretti a lasciare il luogo in cui abitualmente vivono) e il loro stato psicologico è chiaro il coinvolgimento della nostra professione, anche se esplicitamente previsto solo verso i profughi. Tutto ciò dovendosi imputare ad una formulazione che probabilmente ha tenuto conto più della situazione medica e meno della situazione psicologica. Anche in considerazione del fatto che, a quell’epoca, i progressi e i contributi scientifici delle realtà estere (USA, Inghilterra, Finlandia, Australia, ecc.) erano ancora sconosciuti o limitati nel nostro paese.

 

In conclusione, l’invito a investire le competenze della psicologia e le esperienze degli psicologi nel vasto e complesso campo delle emergenze è chiaro. Nell’economia di questo scritto ci siamo limitati ad evidenziare soprattutto le emergenze legate alle catastrofi, ma è evidente che gli sconvolgimenti sempre più frequenti – in situazioni e condizioni diverse – sono una chiamata importante e una sfida che è importante raccogliere.

 

titolo: Le risorse della Psicologia e i soccorsi sanitari nelle catastrofi

autore: Vittorio Tripeni

argomento: Psicologia Emergenza e Psicotraumatologia

fonte: Vertici Network

data di pubblicazione: 12/11/2001

 

pubblicato in forma ridotta anche sul notiziario OPL (Ordine degli Psicol della Lombardia), n, 1 gennaio 2002

www.opl.it/allegati/Numero%201%20gennaio%202002.pdf

L’anomalia della violenza

Perché solo in Italia è esplosa la guerriglia urbana? La domanda non va elusa, anzi la condanna della violenza dovrebbe accompagnarsi a uno sforzo analitico per evitare di trasformarla in un rito autoassolutorio.
La furia di sabato è il risultato di un insieme di fattori culturali, politici, ideologici, economici e istituzionali che si sono progressivamente incistati nel corpo italiano: alcuni sono specifici e di lungo periodo, altri congiunturali e comuni ad altri Paesi, ma è la loro miscela ad avere innescato la miccia della sovversione. Sul piano culturale scontiamo una responsabilità antica, quella di non essere stati capaci di fare i conti con la violenza degli anni Settanta: la demonizzazione delle Brigate rosse è stata funzionale a relativizzare, sino a occultarle, le responsabilità dell´area di contiguità, l´acqua dove a lungo hanno nuotato quei pesci. Abbiamo esecrato la lotta armata, ma prima blandito e poi rimosso la violenza extraparlamentare, preferendo scegliere la strada dell´interessato cabotaggio politico. Gli effetti revisionistici sono sotto gli occhi di tutti: ieri nel Corriere della Sera ancora si raccontava la favola che «Nel 1977, gli studenti romani cacciarono Luciano Lama dalla Sapienza. Erano poche centinaia, ma interpretavano un disagio diffuso che Cgil e Pci non rappresentavano più». Nessuno, in realtà, ama ricordare che quell´assalto fu organizzato da Autonomia operaia ed era guidato, fra gli altri, dal brigatista Bruno Seghetti, spalleggiato da Emilia Libera e Antonio Savasta, che tutti sapevano essere tali e che partecipavano regolarmente alle assemblee del movimento del ´77 in rappresentanza delle Br, fino a pochi giorni prima del rapimento di Aldo Moro: assemblee pubbliche, non congregazioni di clandestini. Su questa ambiguità costitutiva è germogliata un´operazione “nostalgia”, alimentata da mitizzazioni, arzigogolii classificatòri e reducismi, che quanti oggi frequentano le aule universitarie vedono sopravvivere con il loro corollario di citazioni, simboli e parole d´ordine, che legano una generazione all´altra, come anelli arrugginiti di una sola lunga catena.
Si è poi in presenza di una crisi del sistema politico, la cui rappresentanza parlamentare non è mai stata così debole sul piano dell´autorevolezza e tanto spostata a destra. Nel 2008, tra gli sciagurati effetti della cosiddetta vocazione maggioritaria, nel forzoso tentativo di rendere l´Italia non solo bipolare, ma anche bipartitica, è scattato il meccanismo del voto utile che ha cancellato la sinistra radicale dal Parlamento. Essa, anche negli anni più bui del terrorismo, ha sempre rappresentato un punto di riferimento per l´antagonismo extraparlamentare, un´area di compensazione, di mediazione e di dialogo venuta meno all´improvviso, prosciugando lo spazio tra istituzioni e società, Palazzo e movimenti.
C´è anche una crisi ideologica strettamente connessa a quella politica. Siamo intossicati da anni di propaganda che, a destra come a sinistra, ha inculcato negli italiani l´idea che fare politica sia una cosa sporca per definizione e che tutti sono ladri. Si sarebbe dovuto distinguere la polemica giustificata contro i costi della politica, che appartiene per tradizione a un pensiero dell´austerità di derivazione progressista, da quella contro la casta che in tutte le sue varianti (elitista-liberale, qualunquista, fascista, gauchista) ha sempre aperto la strada alla reazione. Ma si è rinunciato a farlo: per pigrizia, per furbizia, per interesse, per demagogia, o per continuare a puntellare il governo di Berlusconi spostando il fuoco dell´attenzione dalle responsabilità dell´esecutivo verso una generica e generale dequalificazione della politica e del Parlamento nel loro insieme, che, nel condannare tutti indistintamente, finisce per assolverli. Ora, però, si inizia a pagarne le conseguenze. In questo vuoto pre e post politico si inseriscono con maggiore facilità proposte demagogiche speculari come l´annuncio di nuove misure restrittive da parte del ministro degli Interni Maroni o la richiesta di leggi speciali come quella avanzata da Di Pietro. Sarebbe più utile e serio impegnarsi ad applicare le norme già esistenti e soprattutto non continuare a umiliare le forze di polizia, costringendole a fare la colletta per pagarsi la benzina come denunciato in queste ore dai sindacati di categoria.
Esiste poi un problema economico legato alla cosiddetta «generazione 1000 euro», precaria e senza futuro. Manca il lavoro e quello che c´è è sporco, ma una persona senza lavoro è priva della sua dignità, della possibilità di avere una speranza. È out, escluso dall´universo dei consumi e dei sogni e, in tempi di crisi economica, ciò provoca uno scatto nevrotico, da cui possono scaturire il gesto violento, privo di ragione, poiché è il prodotto di una sragionevolezza quotidianamente vissuta che non si sa più gestire sul piano psicologico. Disperata. Tali meccanismi non sono tipicamente italiani: sono gli stessi che hanno indotto in Francia e in Inghilterra i figli degli immigrati di prima generazione a distruggere le periferie di Parigi e di Londra, o i giovani di Atene a tentare di assaltare il Parlamento. L´originalità nostrana è che il problema riguarda ancora giovani italiani, che non chiedono democrazia perché sanno che la democrazia li ha traditi non riuscendo a mantenere le sue promesse. Sono una grande questione sociale che dovrà trovare delle risposte politiche riformiste all´altezza perché altrimenti la fuga sarà a destra, secondo il solito circuito repressione/consenso alimentato dal populismo. L´altra specificità italiana è che il processo di americanizzazione (il tuo valore si misura in base al guadagno, la competizione è un dovere morale) è avvenuta in assenza di una società aperta, fondata sulla responsabilità individuale come negli Usa. Da noi si è venduto un sogno consumistico senza che nessuno potesse viverlo in base alle proprie capacità, ma solo se garantito da una famiglia alle spalle (che offre casa, lavoro, assistenza) o da una corporazione. Tutto ciò si trasforma nell´abuso sempre più intollerabile di un mondo chiuso, in cui la libertà diventa privilegio e l´escluso è indotto a scegliere tra le strade della depressione, dello sballo, del nichilismo, della corruzione o della violenza: verso se stesso, o verso gli altri.
C´è infine il fattore Berlusconi, il problema istituzionale di un governo senza autorevolezza. Negli ultimi mesi questa è la seconda volta che Roma viene messa a ferro e fuoco. Sarà un caso, ma ciò è avvenuto sempre quando si votava la fiducia al suo pencolante esecutivo. L´impressione è che ci sia la convenienza nel provocare, in ore di attesa e di instabilità politica, il ribellismo sociale così da diffondere l´idea che un cambio di fase farebbe precipitare il Paese nel caos. Non c´è bisogno di infiltrare o di eterodirigere, è sufficiente lasciar fare, allargare i cordoni della prevenzione e del contenimento, gestire “politicamente” l´ordine pubblico, un´attitudine al “sovversivismo dall´alto” in cui le classi dirigenti italiane hanno una lunga ed efficace tradizione. La violenza di sabato era ampiamente attesa, monitorata e monitorabile, ma serve per spegnere la vitalità di un movimento in gran parte pacifico, per annichilire l´etica del bene comune che lo alimenta, per bruciare l´idea di un cambiamento possibile che contribuisca a un risveglio italiano.

(Miguel Gotor)

Da La Repubblica del 18/10/2011.

La vita: un modo di essere

“Durante una vacanza sul Pacifico, me ne stavo su alcune sporgenze rocciose a guardare le onde infrangersi sugli scogli, notai con sorpresa, su una roccia, qualcosa come dei piccoli fusti di palma, non più alti di 70-80 cm, che ricevevano l’urto del mare. Attraverso il binocolo vidi che si trattava di un certo tipo di alghe costituito da un fusto snello e un ciuffo di foglie posto in cima. Osservandole nell’intervallo fra un’onda e l’altra sembrava evidente che il fusto fragile, eretto, dalla chioma pesante, sarebbe stato completamente schiacciato e spezzato dall’onda successiva. Ma quando l’onda gli si abbatteva sopra, il fusto si piegava paurosamente e le foglie venivano sbattute fino a formare una linea diretta dallo scorrere dell’acqua. Tuttavia, non appena l’onda era passata, ecco di nuovo la pianta diritta, resistente, flessibile. Sembrava incredibile che un’ora dopo l’altra, giorno dopo notte, per settimane e forse per anni, potesse resistere a questo urto incessante, e per tutto il tempo potesse nutrirsi, affondare le proprie radici e riprodursi. In breve, potesse mantenere e migliorare se stessa attraverso un processo che, nel nostro linguaggio, chiamiamo crescita. Con la tenacia e la persistenza della vita, la capacità di resistere in un ambiente incredibilmente ostile, riuscendo non soltanto a sopravvivere, ma ad adattarsi, a svilupparsi, a essere se stessa”.

Questo breve appunto biografico di Carl Rogers pone in risalto come, in tutti i regni della natura, la vita sia un processo attivo, non passivo. Portando a considerare che, prescindendo dalla provenienza dello stimolo, dal fatto che l’ambiente possa essere favorevole o sfavorevole, l’organismo tende ad assumere forme adatte a mantenere, migliorare e riprodurre se stesso. Sicuramente questa è una descrizione molto generica del fenomeno, ma rappresenta in modo adeguato (almeno nell’economia di questo scritto) la natura propria del processo, in continuo divenire, chiamato “vita”: quella tendenza intrinseca negli organismi viventi che è presente in ogni momento della loro esistenza. Poiché è solamente l’evidenza o l’assenza di questo processo che può darci la possibilità di dire se un dato organismo è vivo o morto.

Viene spontaneo pensare al racconto quando capita di incontrare clienti che vivono la loro situazione definendola molto complicata e difficile. Vogliono cambiare e non sanno come fare, si sentono schiacciati dai loro fardelli personali. A un esame superficiale le loro storie possono sembrare problematiche, disturbate, sorprendenti. Le condizioni in cui queste persone sono cresciute, hanno vissuto la loro esistenza, di solito non sono state molto facili e sicure … Eppure, ogni volta che si presenta l’occasione, si può contare sulla tendenza proattiva che alberga in loro. La chiave per capire il loro modo d’essere è che esse stanno lottando, persone e/o organizzazioni di persone, con le uniche modalità che sentono di avere a disposizione, per muoversi verso la crescita, verso il divenire: per uscir fuori da quella condizione di sofferenza. A chi in quel momento osserva la scena dall’esterno e non sta vivendo quei problemi, i tentativi possono sembrare inammissibili e inspiegabili ma essi sono i coraggiosi, autentici, tentativi della vita di diventare se stessa. E’ un modo di essere, una forte tendenza che cerca di affermare un processo di crescita costruttivo.

A partire da queste considerazioni, si può azzardare un’affermazione lapalissiana dicendo che, quando le circostanze sono favorevoli, l’organismo cerca di svilupparsi al massimo, per raggiungere un grado di armonia e di integrazione superiori. Tenendo presente che per l’organismo vivente esiste una condizione di sviluppo costantemente attivo in virtù di un processo intrinseco naturale poiché non esiste in natura alcun processo vitale che giunge definitivamente a completezza e stabilità. Tutto ciò può aiutarci ad individuare sia gli elementi che favoriscono la crescita e sia le modalità attraverso le quali tale crescita può essere facilitata o incoraggiata.

Le caratteristiche generali degli esseri viventi assumono nell’uomo forme molto più complesse e singolari. Negli esseri umani le forze “naturali” appartenenti alla sfera vegetativa e quelle legate alla “istintualità” sono certamente meno attive ed evidenti, essendosi metamorfosate in capacità superiori tipiche dell’umanità. Questo ha portato la persona a crescere individualmente, ad interiorizzarsi sempre di più, ad evidenziare la unicità e la irripetibilità del prorio Io, in un processo continuo di crescita spirituale. Sottolineando così la diversità e la differenza esistente tra ciascun essere umano.

Per essere “Io” occorre però essere almeno in due. Non è possibile crescere se si è da soli, l’Io si trova in divenire soltanto in rapporto a un Tu; solo nel momento in cui si confronta con l’altro. François de Singly ha sviluppato il tema della costruzione/ricomposizione dell’identità adulta all’interno delle relazioni ed ha evidenziato una struttura a quattro termini: un sé visto da se stessi e un sé visto dagli altri, sdoppiati a loro volta in un sé intimo, privato, e un sé “sociale”, ciò che consente uno stato definito di persona. Tenuto conto che la questione dell’identità alla base della definizione di sé non è mai compiuta, una volta per tutte, ma richiede costanti aggiornamenti o riaggiustamenti,  ne deduciamo che la costruzione dell’identità diventa un progressivo svelamento e/o rafforzamento – da parte di altre persone significative – di sfaccettature nascoste di noi stessi.

Ecco allora che, per lo sviluppo spirituale-identitario dell’essere umano, “l’ambiente” che può facilitare o ritardare la sua crescita, diventa maggiormente complesso e complicato dalla presenza e dalla necessità dei rapporti interpersonali che sono alla base della sua esistenza.

Potremmo orientare queste brevi riflessioni anche nel contesto del “lavoro” e delle “organizzazioni”, avremmo così modo di renderci conto di come può essere importante la relazione tra le persone e come essa può influire sulla crescita e lo sviluppo del “clima” aziendale e della cultura organizzativa. Le relazioni all’interno dell’organizzazione del lavoro possono facilitare o ritardare la crescita e lo sviluppo delle persone e dell’organismo sociale che esse costituiscono.

Sulle ali della poesia. Opportunità d’uscita in due episodi panici

A volte mi faccio aiutare dalla poesia. Di solito in momenti particolarmente “critici”, in cui le parole, il pensiero logico, le considerazioni improntate alla ristrutturazione cognitiva, mostrano un loro limite, una loro debolezza. Quando, ad esempio, occorre legittimare ed attualizzare esperienze molto angosciose; come quelle situazioni in cui i vissuti ansiosi salgono dal basso, simili a un’onda che minaccia di offuscare la coscienza. Quando si sta male, ci si sente “ciechi” e “sordi” dalla paura ed allo stesso tempo non si riesce a mantenere un rapporto cosciente con la realtà.

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